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“ElbaTaste – Sapori dell’Elba”: Vino, Cibo e Archeologia (seconda parte)

Scritto da  Valter Giuliani Domenica, 21 Settembre 2014 07:25

Seconda parte della conversazione con Franco Cambi archeologo dell’Università di Siena (Per leggere la prima parte clicca qui)

Franco Cambi, Professore di Metodologia della ricerca archeologica dell’Università di Siena, ha condotto con il gruppo Aithale gli scavi nella zona del Parco Archeologico della Villa Romana delle Grotte. Abbiamo avuto una piacevole e interessante conversazione sul contributo che i reperti di vino, cibo, e prodotti agricoli danno alle ricerche archeologiche, in particolare quelli emergenti dagli scavi recenti all’Elba. Ne è uscita una lunga intervista che affronta molti temi che ci aiutano a capire gli stili di alimentazione del passato, il rapporto con quelli di oggi e anche alcuni temi di attualità.

 

Nella Villa Romana delle Grotte avete fatto un ritrovamento di anfore vinarie.

Sono due ritrovamenti. Uno è quello dei grandi dolia defossa. Questi grandi vasoni interrati contenevano ciascuno più di mille litri. Cinque di questi doli potevano contenere circa 6000 litri. Questa produzione non è paragonabile a quella di altre ville fino ad ora conosciute (la villa de La Pisanella a Boscoreale vicino a Pompei; la villa romana di Settefinestre vicino a Orbetello) che avevano delle produzioni più abbondanti, destinate alla commercializzazione sia sul mercato interno che sui mercati trans marini della Gallia della Spagna. La produzione della Rada di Portoferraio, almeno per quanto ci è dato da sapere fino ad ora, era una produzione destinata al consumo interno (la villa soprastante) e al consumo del mercato locale. Non è pensabile una esportazione su vasta scala.

Non credo che lo consumassero tutto loro questa quantità di vino!

Bisogna tener conto del fatto che il vino era considerato, oltre che bevanda, alimento. I Romani non avevano lo zucchero, il loro dolcificante principale era il miele e potevano esserci delle carenze di zuccheri in certi momenti e in certe zone. Il vino era un alimento che già agli inizi del II secolo a.C. Catone il Censore contempla nella dieta degli schiavi. E’ interessante notare che gli schiavi di Catone bevevano un quarto di litro di vino al giorno durante i mesi invernali, più o meno mezzo litro durante la primavera o l’autunno e tre quarti di vino al giorno d’estate. Qualcuno ogni tanto osserva: perché bevevano più vino d’estate quando fa caldo piuttosto che d’inverno quando fa freddo? Risposta: perché in inverno si lavorava meno in campagna, era minore lo sforzo fisico; il vino era un elemento che apportava calorie ed era necessario nei mesi nei quali in campagna si lavorava di più.

Ne dovevano produrre molto se veniva distribuito agli schiavi, era un prodotto di massa.

Un altro aspetto che riguarda il vino è quello legato all’esercito. Nel suo Vangelo, Matteo, parlando dell’agonia di Cristo, racconta l’episodio del centurione che, ad un certo punto, imbeve la spugna di aceto per dissetarlo. In passato questo episodio è stato connotato negativamente, una specie di supplizio ulteriore inflitto al giustiziato. In realtà, il soldato disseta Gesù con quello che aveva, una bevanda che lui portava con sé e che si chiamava “Posca”: un vino acidulo, una via di mezzo fra il vino e l’aceto. La Posca, bevanda leggermente alcolica e molto acidula, era un ottimo dissetante se mischiato con l’acqua e offriva prevenzione verso le infezioni intestinali.

Negli scavi della villa romana oltre ai vasi interrati cosa avete trovato?

Oltre ai doli, abbiamo trovato anfore vinarie che stiamo studiando, anfore per commercializzare il vino. All’Elba, però, non c’è argilla e, se c’è, si tratta di giacimenti estremamente limitati. Le grandi fornaci di anfore romane erano situate fra Orbetello e Talamone, alla foce del fiume Albegna, costruite vicino al porto fluviale. I vasai, che poi erano schiavi organizzati su vasta scala con attività pianificata, scavavano l’argilla, la portavano dentro l’edificio, la lavoravano e cuocevano le anfore nelle fornaci. Abbiamo analizzato le argille dei doli. Queste argille provenivano dalla valle del Tevere. Molto probabilmente questi doli venivano da manifatture di Roma. Le anfore probabilmente provengono anche loro dalla valle del Tevere o dalla costa dell’Etruria meridionale dove ci sono delle fornaci per quel tipo di anfore. Ci vuole molta attenzione quando si cerca di ricostruire il contenuto delle anfore sulla base del contenitore perché un’anfora poteva essere usata in un modo all’inizio della sua vita e poi avere degli usi diversi. La svuotavano del vino e la usavano come contenitore per l’acqua, oppure come contenitore per la frutta, le marmellate, le conserve di pesce. Un’anfora arrivata a destinazione poteva addirittura essere segata da una parte e dall’altra e unendo diverse anfore si faceva una tubatura. Negli strati bassi delle popolazioni usavano le anfore per le sepolture infantili. La mortalità infantile era elevatissima e le famiglie povere seppellivano i bambini morti precocemente in anfore inutilizzate. A questo punto si apre per l’Elba un capitolo interessante che è tutto da vedere da analizzare: quali vitigni e di quali specie.

Pensi che si possa rintracciare le tipologie dei vitigni?

Qualcosa si può rintracciare. E’ un lavoro molto delicato. Abbiamo raccolto molti campioni di semi all’interno di queste anfore ma il quadro non è ancora affatto preciso, dobbiamo capire bene se si tratta di acini di uva e quidi risalire alla specie.

A parte il vino ci sono tracce di altri alimenti egli scavi della Rada?

Abbiamo trovato dei semi, ancora oggetto di analisi. Con buona probabilità questi semi rimandano a mele selvatiche. Qualcuno ha pensato al sidro, qualcuno a composte di frutta. Io, prima di arrivare a tanto, direi che erano mele. Dobbiamo immaginare un paesaggio condizionato da profonde trasformazioni anche ravvicinate. Nel luogo in cui stiamo lavorando, nello scavo della villa rustica, siamo alle prese con un orizzonte agrario collegato con la soprastante Villa delle Grotte. La fattoria nasce prima, intorno al 100 a.C. o poco dopo, quando si chiude l’intensa fase di lavorazione del ferro. La zona, probabilmente, sarà stata bonificata. La fattoria del 100 a.C. è stata costruita sopra l’impianto in cui si lavoravano i minerali di ferro, quasi sicuramente ematite elbana. Il principale interesse, a questo punto, è quello di non sminuire questa identità mineraria e siderurgica dell’Elba ma di far capire che ci sono componenti diverse egualmente importanti per definire il quadro conoscitivo. Mi piacerebbe arrivare ad una definizione più precisa del quadro ecologico.

La Villa delle Grotte è successiva alla Villa della Linguella ?

Di pochi decenni, credo.

L’insediamento agrario della Rada poteva essere funzionale alla Linguella

Sì, certo, anche in questo caso ci sono delle considerazioni da fare. La Rada di Portoferraio rappresenta un approdo quasi perfetto perché è riparata da tutti i venti tranne che dallo scirocco. L’unico punto riparato dallo scirocco è proprio dove c’è l’insediamento. Prossimamente cercheremo, pur con risorse finanziarie ridottissime, di documentare anche quello che si trova sott’acqua, a pochi metri dall’insediamento della villa rustica di S.Giovanni.

I ritrovamenti sono riferiti al vino e a questi semi di frutta non ci sono tracce di altri tipi di alimenti animali o vegetali ?

Al momento c’è questo, l’ideale sarebbe trovare un immondezzaio, che per l’archeologo è una specie di miniera d’oro perché si trovano certamente tutti i frammenti dei vasi rotti durante l’uso nella vita dell’insediamento e aiutano a ricostruire il quadro di consumi e della circolazione delle merci, e poi naturalmente tutte le ossa e i resti vegetali.

E possibile che lo troviate in mare?

Potrebbero aver buttato anche tutto in mare, certo. In quel caso, la faccenda si complica notevolmente. Però non ci arrendiamo e speriamo di trovare altre tracce e di mandare avanti in parallelo sia la ricerca archeo-metallurgica sia la ricerca sul paesaggio.

Per concludere che rapporto ci può essere fra l’alimentazione di oggi e quella che emerge dalle vostre ricerche?

Bisogna tenere presente un postulato ineludibile e cioè che fra l’orizzonte alimentare dei romani e il nostro c’è una differenza abissale. Sono mondi incomparabili e non solo perché noi abbiamo la patata e il pomodoro e loro no, ma perché proprio c’è una distanza impressionante. Anche nel campo della produzione del vino ho trovato molto interessante l’esperimento che sta facendo il nostro Antonio Arrighi, con le sue vigne e i suoi uvaggi, anche in questo caso tenendo presente che non c’è soltanto una differenza fra oggi e quel tempo, differenza di gusti e di produzione. Le differenze fra allora e oggi sono, in parte, tecnologiche, e molto di gusto. Bisogna tenere conto del fatto che anche il loro mondo era soggetto a trasformazioni impressionanti. Quelli che oggi potremmo chiamare i “Grand Crus” dell’epoca (Falerno, Cecubo, Fundano, e tanti altri vini famosi dell’età tardo repubblicana) erano prodotti in una zona compresa fra il Lazio meridionale e la Campania, che poi ha quasi completamente perso quella connotazione vinaria. Altre zone, come il Chianti, questa connotazione l’avevano in misura più ridotta e l’hanno sviluppata in seguito. Il vino che piaceva ad Augusto stesso, era un vino chiamato Rethicum o Veronese, che proveniva dall’attuale Veneto interno. Questo vino era considerato pessimo 60 anni dopo da Marziale. Augusto era un personaggio ironico ma dai costumi austeri, Marziale era un gaudente intellettuale sofisticato che andava a scegliersi i vini migliori. Anche all’epoca, il gusto cambiava.

Come tu sai bene è un difetto che ci portiamo dietro quello di voler connotare le epoche, oppure altri popoli, in maniera statica. Noi facciamo coincidere il dinamismo e il cambiamento con l’epoca contemporanea e questo è falso perché è sempre stato magari con velocità diverse. Basti pensare alle dimensioni degli scambi negli imperi da quello romano all’Impero Ottomano che è finito nel 1920 e che andava dallo Yemen fino a Vienna, c’erano varietà e contaminazioni di tutti i tipi.

 

D’altra parte noi oggi andiamo in Puglia e troviamo dei vini eccellenti. E’ una regione che ha fatto dei passi da gigante rispetto a trenta o quaranta anni fa.

Quello che è importante è affermare è che il dinamismo e la contaminazione continua nella storia umana è la cifra con la quale dovremmo leggere anche il presente.

Noi dobbiamo considerare anche un fatto: il quadro delle élite romane che frequentano l’Elba del 50 a.C. sono i Valeri e gli Aureli. Cinquanta-settanta anni dopo, sono cambiate completamente. Anche nella villa romana di Settefinestre, scavata tanti anni fa, ad un certo punto c’è stato un cambio di proprietà. La vecchia aristocrazia romano-latina entra in crisi ed è sostituita da altre élite. In questa villa, le strutture per la produzione del vino vengono adeguate e probabilmente c’è un passaggio dalla produzione di un vino bianco forse forte e liquoroso ad uno probabilmente rosso e prodotto in maggiori quantità.

Probabilmente avevano piantato un vitigno che rendeva di più e incontrava il gusto dell’epoca

Diciamo che a volte il quadro agrario e ambientale cambiava con la stessa velocità del quadro sociale; erano delle notevoli velocità.

D’altra parte, una profonda differenza fra ora e allora era che non si poteva avere una monocoltura perché l’insediamento agrario romano aveva come primo requisito la autosufficienza economica e alimentare. La villa romana aveva nel vigneto o nell’oliveto il settore dove si produceva profitto in senso proto-capitalistico; però dietro questo vigneto c’erano le produzioni per l’autosufficienza, il grano, l’olio, i cereali, la carne, i materiali per produrre i contenitori. C’era uno schiavo che si chiamava “salictarius” addetto alla raccolta delle fronde dei salici per costruire canestri. Meno si comprava sul mercato e meglio stava l’economia.

Anche qui le vigne erano tutte in collina e in pianura c’era il grano.

In effetti parlando con funzionari e amministratori della nostra regione c’è la volontà di ripristinare delle policolture, la viticoltura sta diventando invasiva e a volte presenta anche dei costi incontrollabili.

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