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“Galera” di Mario Palazzo: storie di un carcere umano.

Scritto da  Domenico Zottola Domenica, 08 Luglio 2012 05:54

Ho letto letto il libro di Mario Palazzo tutto d’un fiato - scrive Domenico Zottola - perché racconta con semplicità, fedeltà ed efficacia storie umane realmente vissute nel corso degli anni.

Per un disguido non ho potuto essere alla presentazione del libro autobiografico di Mario Palazzo presso la Sala Consiliare del Comune di Porto Azzurro. Per me è stato un dispiacere non aver potuto partecipare ma non voglio esimermi di esprimere il mio apprezzamento per un racconto di eventi ed episodi che ho letto e in parte rivissuto.

L’ho letto tutto d’un fiato perché racconta con semplicità, fedeltà ed efficacia storie umane realmente vissute nel corso degli anni.

Palazzo, senza avere la presunzione di voler indicare indirizzi di politica penitenziaria, tra le righe della narrazione di eventi singolari ed altri anche drammatici (perché il carcere è, comunque, dramma permanente), fa emergere i principi su cui si è basata l’esecuzione penale in un carcere che per decenni ha rappresentato un modello nel panorama penitenziario italiano.

 Ho conosciuto Palazzo da Appuntato e l’ho visto percorrere tutto il suo iter professionale per oltre un ventennio e, pur nella giusta ambizione personale non ha mai perso di vista il fine istituzionale da cui un operatore penitenziario non può prescindere; pur essendo entrato nell’amministrazione in anni in cui di riforma penitenziaria ancora non si parlava ha saputo recepire i principi innovativi della legge 354/75 e delle successive riforme, tra cui la così detta “Legge Gozzini”,   della rieducazione e del reinserimento sociale del detenuto.

 Erano anni difficili, anni in cui il sovraffollamento era esasperato (si era arrivati a circa 500 detenuti), anni in cui a Porto Azzurro venivano assegnati insieme a detenuti condannati di un certo “spessore criminale”, anche detenuti in attesa di giudizio e addirittura detenuti appartenenti a fazioni contrapposte in guerra fra di loro.

Palazzo, profondamente legato al suo ruolo di appartenenza ma anche capace di delimitarne i confini, nella sua semplicità aveva perfettamente recepito che l’efficacia della funzione del Corpo degli Agenti di Custodia prima e della Polizia Penitenziaria poi e la valorizzazione del proprio ruolo non potevano prescindere dalla legittimazione e dalla valorizzazione delle altre Aree funzionali, in particolare dell’Area Educativa e degli stessi assistenti volontari. Aveva saputo recepire che la “sicurezza” ed il “trattamento rieducativo”, sono due strumenti non antitetici ma funzionali l’uno all’altro da cui non si può prescindere per il difficile raggiungimento delle finalità che la costituzione attribuisce all’esecuzione penale. Aveva capito che la propria affermazione professionale ed anche personale, passa attraverso il rispetto profondo delle competenze e della dignità degli altri, detenuti, operatori penitenziari e operatori volontari. Aveva capito che la propria legittimazione è direttamente proporzionale al rispetto ed alla legittimazione dell’altro, pur nella diversità e nella specificità delle competenze.

Il rispetto di Palazzo per il ruolo, la funzione e le competenze degli altri non gli ha impedito di essere sempre in prima fila per la difesa e l’affermazione della dignità del ruolo della Polizia Penitenziaria: non lo ha fatto attraverso la ricerca di privilegi anacronistici e poco dignitosi per i destinatari, di agevolazioni varie rispetto ad altri lavoratori - che nulla avrebbero aggiunto alla sua posizione di ruolo ed a quella di un corpo chiamato a svolgere compiti difficili e scomodi; lo ha fatto rivendicando con forza l’importanza del lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria, in simbiosi e in stretto rapporto di interazione con gli altri operatori e attraverso il rispetto e l’arricchimento professionale degli uomini che era chiamato a coordinare.

La rivendicazione della dignità del proprio lavoro è stata perseguita col buonsenso e soprattutto con l’impegno costante nell’organizzazione di progetti ed attività finalizzate alla rieducazione dei condannati, alla prevenzione, alla conseguente limitazione dei rischi sociali ed, in ultima analisi, alla tutela della società stessa.

Domenico Zottola

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