Stampa questa pagina

I Ricordi di una Partigiana Portoferraiese

Scritto da  . Venerdì, 31 Maggio 2013 06:57

Oggi 31 Maggio 2013 alle ore 11,00 c/o la sala Della Gran Guardia di Portoferraio il Comune di Portoferraio Assessorato alle Politiche Giovanili, l'Informagiovani e il Circolo Pertini. Ringrazieranno ufficialmente la Sig.ra Annamaria Caizzi Mibelli cittadina di Portoferraio per la sua testimonianza e l'importante ruolo e aiuto nel fronte della liberazione svolto da suo marito Bruno Mibelli.

Oggi 31 Maggio 2013 alle ore 11,00 c/o la sala Della Gran Guardia di Portoferraio il Comune di Portoferraio Assessorato alle Politiche Giovanili, l'Informagiovani e il Circolo Pertini. Ringrazieranno ufficialmente la Sig.ra Annamaria Caizzi Mibelli cittadina di Portoferraio per la sua testimonianza e l'importante ruolo e aiuto nel fronte della liberazione svolto da suo marito Bruno Mibelli.
BRUNO PER SEMPRE:
UN MATRIMONIO IN TEMPO DI GUERRA
“Sono trascorsi 63 anni dal nostro matrimonio. Era il 26.10.1944 quando Bruno ed io ci unimmo in matrimonio nel Duomo di Portoferraio. Ma la guerra continuava, avanzavano gli Alleati che liberavano l’Italia dall’oppressione nazista e fascista.
Si stava riformando un esercito di italiani d’intesa con gli Alleati.
Solo dopo 42 giorni di matrimonio arrivò all’Elba, a Porto Azzurro, una nave militare americana e tutti i giovani idonei furono incorporati nella Quinta Armata. Bruno fu arruolato come tanti suoi coetanei.
Fino ad allora, dopo l’8 settembre ‘43, tanti ragazzi erano stati nascosti in vari luoghi dell’isola e in particolare nei tombini delle Fortezze medicee di cui dirò dopo, e noi donne li avevamo protetti dalle ispezioni nazifasciste. Piccole storie che dimostrano l’oppressione subita a Portoferraio e anche la nostra Resistenza, quella di noi ragazze, che siamo state partigiane scongiurando la cattura dei nostri uomini.
Io ero disperata dopo la partenza di Bruno, per un mese non seppi dove era andato a finire mio marito! Poi un ragazzo mi portò una sua lettera e così ebbi notizie.
Ricordiamoci che in quei momenti non avevamo mezzi di trasporto pubblici. Non c’erano traghetti e neppure bus sulla terraferma. Le poste quindi non funzionavano e così tutto era affidato alla buona sorte e le lettere ci arrivavano per caso, portate da qualcuno chissà come. Per andare a Piombino, in continente, si dovevano usare dei barconi, dei mezzi di fortuna.
Tanti giovani erano partiti dall’Elba con gli americani, per unirsi al Corpo di Liberazione e quindi anche Bruno aveva fatto quella scelta coraggiosa. Era a Firenze: doveva preparasi a combattere per la liberazione di Bologna, ancora in mano ai nazifascisti.
Io mi ammalai di una forma leggera di epatite e finii all’ospedale.
Intanto Bruno a Firenze stava facendo il suo dovere. Come sempre seppe farsi valere, e i capi lo assegnarono agli uffici di smistamento delle scorte alimentari. Lui riuscì a far stare insieme tutti i ragazzi elbani e cercò di aiutarli affinché tutto andasse bene.
Mi raccontò, in seguito, di una notte particolare, quando accompagnò in una missione un convoglio di camion pieno di militari, bianchi, neri e di tutte le razze.
Il primo mezzo della colonna era guidato da un simpatico ragazzo di colore che purtroppo ad un certo punto risultò ubriaco. Perse la giusta via. Finirono per i monti verso il Passo della Futa. Le strade erano poco più che viottoli e tutti erano spaventati dalla strada impervia, ma anche dal fatto che si udivano colpi di cannone. Stavano finendo in mezzo ad un bombardamento, per fortuna riuscirono a cavarsela.
Come ho detto, a noi ogni tanto arrivavano notizie portate da qualche volontario, da qualche amico, che recapitava lettere a mano e talvolta neppure la lettera, qualcuno ci riferiva a voce notizie dei nostri cari. Magari si trattava di qualcuno che aveva avuto una licenza.
Seppi che Bruno, a Firenze, ad un certo punto notò che due giovani portoferraiesi si zittivano, quando lui era nei pressi. Capì che stavano parlando di qualcosa che lui non doveva sapere. Insistendo quei ragazzi cedettero e gli raccontarono del fatto che io ero ricoverata in ospedale. Chissà come era arrivata a Firenze quella novità. Bruno chiese subito un permesso e riuscì a convincere il suo comandante e ottenne 3 giorni di licenza. “Ma se non torni in tempo guarda che rischi la fucilazione!” gli disse.
UN ANGELO IN CORSIA MI HA BACIATA
Io ero ricoverata e stavo sempre con gli orecchi tesi per sentire se dal corridoio arrivava il rumore di un passo pesante, di qualcuno che portava gli scarponi militari.
Se capitava saltavo giù dal letto, ma poi mi rendevo conto che non si trattava di Bruno. Non sapevo che la divisa data dagli americani prevedeva scarpe con le suole di caucciù morbido: non facevano molto rumore camminando. Ad un tratto, un giorno, mi sentii abbracciare mentre dormivo, aprii gli occhi e vidi il mio caro Bruno e ci mettemmo a piangere per la gioia e con noi pianse tutta la corsia del vecchio ospedale napoleonico, che si trovava nel centro storico.
Bruno andò subito a parlare col primario che non mi voleva far uscire ancora, perché voleva che la mia convalescenza fosse ben risolta, ma il prof. Bertolini, che aveva sposato una Lorenzi, fu comprensivo e acconsentì alle mie dimissioni. Appena a casa feci subito le valigie per seguire Bruno a Firenze, ma lui per tornare doveva viaggiare su convogli militari, perciò per raggiungerlo mi avventurai accompagnata da nonno Andrea Lungonelli. Ero così giovane che non mi lasciarono andare sola. Dopo aver traghettato con dei pescatori fino a Piombino, trovammo un camion che trasportava carbone e assieme ad altri, infilati come sardine, e pagando una bella cifra, si viaggiò nella notte e all’alba arrivammo a Firenze. Mio fratello Vincenzo(*), che lavorava come direttore alla manifattura tabacchi delle Cascine, ci venne a prendere e il giorno dopo mi incontrai con mio marito. Dopo un lungo periodo potemmo passare finalmente qualche tempo insieme. Vicino all’abitazione dei miei parenti trovammo una pensione, e così il giorno stavo con i familiari e la sera raggiungevo la nostra camera con Bruno, che era sempre più felice anche perché si avvicinava la fine della guerra.
Il 25 aprile del 1945, infatti, raggiungemmo Portoferraio. Le campane suonavano a festa e tutti si abbracciavano, piangendo dalla gioia, in piazza Cavour. Tutti speravano nella pace e nel lavoro, ma purtroppo lo spettro della disoccupazione e mille altri problemi, erano dietro l’angolo. La libertà era stata conquistata grazie all’impegno e le battaglie partigiane, ma non dimentichiamoci che dobbiamo ringraziare tanto anche gli Alleati, le forze americane e gli altri che sono intervenuti, per liberarci dalla tirannia nazista e fascista. Con le sole nostre forze italiane e partigiane non sarebbe stato possibile. Noi siamo stati fortunati, se oggi possiamo raccontare queste vicende. Quanti invece donne, uomini bambini e anziani non hanno potuto vedere l’Italia libera e democratica, oppure hanno sofferto per non avere una famiglia vicina. Un pensiero va al nostro Ilario Zambelli che fu ucciso alle Fosse Ardeatine. La sua mamma era una nostra vicina di casa al Forte Stella e finì, per la disperazione della perdita del figlio, al manicomio. Eravamo molto uniti quasi a formare un’unica famiglia. Mio padre era un mutilato della prima guerra mondiale, aveva perso il braccio sinistro e aveva varie schegge nel costato. Noi ragazze dopo l’8 settembre del ’43 si può dire che agimmo da partigiane, in prima fila a nascondere e proteggere i giovani ricercati dai nazifascisti che avevano preso possesso dell’Elba dopo il terribile bombardamento del 16 settembre.
(*)Vincenzo Caizzi, fu anche artista serigrafo, autore di noti quadri su Portoferraio
ANCORA RICORDI DI UNA PARTIGIANA PORTOFERRAIESE
Ma tornando indietro con i ricordi, al giorno dell’armistizio del 43, devo dire che si sperava che la guerra fosse finita o quasi al termine, invece doveva ancora venire il peggio.
I soldati erano dispersi e non sapevano a chi ubbidire, a chi dar retta.
I tedeschi a Portoferraio lanciarono dagli aerei dei volantini, affinché l’isola si arrendesse e bombardarono distruggendo e seminando morte. Prima, il 10 settembre, avevano tentato uno sbarco a Procchio con degli zatteroni, ma furono respinti. C’era anche Bruno a quelle batterie, quello che sarebbe diventato mio marito, che in seguito fece una relazione per gli addetti militari sull’episodio di Procchio.
Gli elbani decisero di non arrendersi, ma certi ufficiali, tra cui Vaccaro, forse per evitare una strage, dissero che era meglio cedere. Ci fu una rivolta per questo e l’ufficiale fu picchiato. La folla era come impazzita, in tanti pensavano di farcela a fermare i tedeschi. Noi restammo a casa, mio padre ci impedì di andare. Una larga parte della popolazione di Portoferraio andò quindi verso la Capitaneria di Porto della Linguella, proprio perché volevano opporsi alla decisione degli ufficiali.
Ma ci pensò quel terribile bombardamento a sistemare le cose. Dal cielo arrivarono chissà quante bombe che seminarono morte e distruzioni e poi arrivarono i paracadutisti tedeschi. L’isola dovette arrendersi, era il 16 settembre 1943. I tedeschi occuparono tutta l’Elba e iniziarono i rastrellamenti e tanti poveri giovani, la maggior parte, furono deportati in Germania. Anche il comandante del Porto Giuseppe Massimo fu poi catturato e ucciso. Mio fratello Raffaele, che in seguito diventò l’economo dell’ospedale, ricorda che insieme con lui al Comando Marina c’erano Rosario Raciti, il comandante Francardi e il tenente Rubaltelli.
I TOMBINI SEGRETI
Ecco che l’esercito italiano finì allo sbando, ci fu il classico “si salvi chi può” favorito dagli stessi ufficiali, anche loro non sapevano più cosa fare. Anche chi era in servizio a Procchio lasciò la postazione e in tanti vennero a Portoferraio. Bruno arrivò alla nostra famiglia in maglietta azzurra, pantaloncini corti e zoccoli. Tutto sudato e graffiato perché era passato dai boschi per evitare il rastrellamento. Passò per le colline come altri giovani che volevano raggiungere altri paesi, ma diversi furono catturati e deportati.
Molti militari italiani riuscirono a fuggire alla cattura tedesca rifugiandosi a Forte Stella, dove furono trovati dei tombini che facevano accedere a delle piccole stanze sotterranee. Si riusciva, noi donne, a rischio della vita, a fare da vedette e quando arrivavano le pattuglie tedesche, si avvisavano i nostri uomini che s’infilavano nei tombini.
Quando uscivano, passati i tedeschi, riuscivano di nuovo a respirare. Infatti, dentro le piccole stanze, infilati come sardine, quasi soffocavano. Questo avveniva quasi ogni giorno e noi ci si dava il turno, cercando di sapere in anticipo, quando ci sarebbero state le ispezioni. Ogni tanto i ragazzi uscivano all’aperto e prendere boccate d’aria e poi si appoggiavano a tante famiglie portoferraiesi e condividevano con noi il poco mangiare che c’era. Spesso andavano intorno al Forte Falcone a fare erba dei campi e quella raccolta costituiva il loro principale cibo quotidiano. Loro non avevano la tessera con la quale presentarsi a prendere il cibo razionato, loro non esistevano.
Ogni tanto facevano un tentativo di andare a prendersi il pane allo spaccio della Sace, che generosamente collaborava offrendo un po’ di pagnotta. Il negozio si trovava nei pressi di piazza della Repubblica, nel centro storico. Bruno e altri ragazzi un giorno erano usciti dai loro nascondigli per non rinunciare a quella occasione di mangiare un po’ di pane fresco. Ma ecco la ronda nazista si avvicinò e per fortuna furono salvati da Toma, una guardia comunale che li avvisò, e fuggirono dileguandosi tra la gente.
Devo narrare anche un fatto importante. Un soldato tedesco che si chiamava Richard salvò tante vite, anche tra i tedeschi c’era chi aveva il senso della giustizia e dell’umanità.
Molte volte ci avvertiva, per tempo, che sarebbe passata la ronda e chiamandoci tutte Maria, ci diceva “nascondere tuo amore”, fu veramente un angelo.
Però Bruno e suo padre ed altri giovani furono poi catturati e andò bene perché furono costretti a essere “operai tutto-fare” per i tedeschi. Non furono deportati. Dovevano scaricare i rifornimenti che arrivavano all’isola con le imbarcazioni germaniche e per ricompensa ricevevano della farina.
A guerra finita, dopo tanti anni, un giorno suonarono alla porta della nostra casa e si presentò una signora con una bella bambina e dietro spuntò Richard.
Bruno si commosse, quando ci chiese di dire a sua moglie che non si era comportato come gli altri tedeschi.  A quanto pare lei non aveva creduto che suo marito avesse salvato tante vite umane, durante il periodo nazifascista.  Non solo confermammo tutto quanto, ma raccontammo anche di quando Richard portava, appena poteva, anche qualche filo di pane ai fuggiaschi.  

Vota questo articolo
(0 Voti)