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Gingi Sangalli: Gli insegnanti portino in classe i loro amori e non i loro umori

Scritto da  Gingi Sangalli Mercoledì, 10 Luglio 2013 12:22

Sicuramente non si fanno le nozze con i fichi secchi, ma almeno che tutti si rimbocchino le maniche, che si ripensi al proprio ruolo nella catena educativa: quale genitore, quale insegnante, quale servizio pubblico al cittadino. Che ci simetta d'impegno tutti insieme, che si inizi a collaborare credendoci.

"Se non speri l'insperato non lo troverai" diceva Eraclito.

Parole che sono salite alla coscienza dopo aver letto l'articolo del Dott.Coscarella e tutti gli altri che hanno animato il dibattito sulle bocciature. Parto da queste parole perché la scuola del secondo millennio, così come la nostra società, è cambiata velocemente e verrebbe voglia di dire in peggio a chi insegna o a chi ha dei figli in età scolare. Invece non possiamo permetterci di essere pessimisti e disfattisti perché in gioco ci sono delle persone e il loro progredire, crescere, vivere , e la vita, come ripete spesso un bravo insegnante e scrittore (Alessandro d'Avenia) è più grande della scuola.

A mio avviso occorre prima di tutto separare la scuola "dell'obbligo" dal successivo percorso scolastico, non tanto perché non siano collegati, quanto perché quell'obbligo qualcosa significa: dare a tutti un sapere di base per essere uomini e donne consapevolmente cittadini e cittadine, significa dare a tutti una valigia con l'essenziale per affrontare non solo le superiori ma il muoversi  criticamente nella società alla ricerca della propria realizzazione, del proprio ben-essere, della propria felicità. La scuola dell'obbligo dovrebbe attuare l'Art. 3 della nostra costituzione, citatissimo, ma sul campo ancora troppo disatteso. Perché se è vero che non sono più i tempi di Don Milani, il quale tra l'altro era  volontario, non un docente stipendiato, è vero altresì che la nostra scuola pubblica dell'obbligo boccia sempre gli stessi: stranieri, ragazze e ragazzi con disagio sociale (per i quali anche le ASL non fanno granché!), con disagio psicofisico, con problemi di apprendimento o di condotta. Questo deve far riflettere, dal momento che ne deriva una mobilità sociale minima (nel senso che chi appartiene ad una classe sociale avrà una discendenza che rimarrà intrappolata nella stessa e lo dimostrano moltissime statistiche). Poca mobilità sociale significa poca crescita e tanta ingiustizia.

Nella scuola media dove insegno ho trovato alunni/e disagiati/e che vengono da famiglie disagiate i cui genitori sono stati allievi di mia madre (maestra elementare) negli anni sessanta e a loro volta provenivano da famiglie povere e con disagio!

Quindi la scuola, le Asl, il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato, non sono riusciti ad applicare quel grande Articolo 3, non c'è stata alcuna rimozione degli ostacoli, ma solo un continuo alzare gli occhi al cielo e dire "con questi tagli come si fa a pensare a tutto?" , "con questa crisi non ci sono i soldi per aiutare i più fragili".

Sicuramente non si fanno le nozze con i fichi secchi, ma almeno che tutti si rimbocchino le maniche, che si ripensi al proprio ruolo nella catena educativa: quale genitore, quale insegnante, quale servizio pubblico al cittadino. Che ci simetta d'impegno tutti insieme, che si inizi a collaborare credendoci.

Nel frattempo la scuola può fare molto anche con poco (torno alla speranza dell'insperato affinché si avveri): nella realtà di una scuola dove tutti disinvestono, alcuni docenti, nuotando controcorrente,  riescono a non lasciare nessuno indietro, non perché regalano tutti 9 o 10, ma perchè hanno una relazione con ciascuno dei propri alunni e insegnano a tutti e tutte cos'è la passione per qualcosa, dando il buon esempio per primi mettendo la passione in ciò che fanno, rinnovandosi, aggiornandosi, preparandosi con cura all'incontro con la classe, in particolar modo all'incontro con quelli che sono in difficoltà. E vi assicuro che la differenza si vede quasi sempre, perché il destinatario di tanta passione si sente riconosciuto, accolto, importante, anche se è partito con uno svantaggio o con il piede sbagliato. Un docente così non si volterà mai dall'altra parte perché "non è anche psicologo", quando vede che uno dei suoi alunni sta soffrendo, che ha difficoltà a stare al passo con altri, che non è inserito nella classe, che è vittima a scuola di prepotenze e soprusi, che non rispetta le persone, gli animali, le cose, e nemmeno se stesso, che arriva da casa ogni mattina in condizioni disastrose.  Un insegnante che ama il prorpio lavoro darà motivazione essendo per primo motivato, saprà trovare dei talenti in ciascuno allievo e li farà scoprire anche a lui, insegnerà il rispetto attraverso il rispetto, mostrerà come ci si fa carico dei più fragili, farà collaborare i più bravi, le cosiddette eccellenze, con quelli che si trascinano dietro delle lacune, organizzerà percorsi fantasiosi di recupero e motivazine a basso costo, ma alto impatto, sarà uno/a che non si arrenderà tanto facilmente.

Questi sono i docenti che (ancora D'avenia) "portano in classe i propri amori e non i propri umori". Impariamo da loro, aggiorniamoci da loro e facciamo come loro. Altrimanti abbiamo sbagliato professione.

E per finire il grande Pennac, ex somaro strabocciato che diventa insegnante e scrittore. Da non perdersi il suo Diario di scuola: "i prof non sono preparati alla collisione tra il sapere e l'ignoranza!", "Nessuno vi chiede di mettervi nei nostri panni, vi chiediamo si salvare i ragazzini che non sono in grado di chiedervelo" e poi un bellisimo finale che va letto di persona. Il mio contributo al dibattito per ora si ferma qui.

 

 

Virginia

 

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