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A Sciambere dello Zecchigeo Appiusco Marcianese

Scritto da  Luigi Totaro - Sergio Rossi Martedì, 16 Settembre 2014 19:11

 

Ogni giorno si registra un intervento sulla questione ormai diventata vitale per la comunità isolana, del dilemma zecca/ipogeo di Marciana; e non vorrei privare i lettori di “Elbareport” e gli abitanti del mondo intero del mio parere, di cui si sentiva proprio la mancanza. 

Bene. I termini generali sono noti, a differenza di quelli particolari, anche se col passare del tempo sembrano precisarsi sempre di più i dati, anche in assenza di documentazione. E trova conferma la tendenza degli studiosi a considerare le cose nelle quali si imbattono e delle quali si occupano come l’ombelico del mondo (oltre che, spesso, una cosa propria, un figlio prediletto per il quale nessuna profusione di gelosia può considerarsi sconveniente).
Anche a me è capitato di occuparmi, una ventina d’anni fa, d’una prospezione archeologica subacquea su un ritrovamento di una imbarcazione d’epoca classica alla Scola di Pianosa, e ne ho parlato e scritto come di “uno dei più importanti siti archeologici finora scoperti lungo le coste italiane”, come dice oggi il dottor Daniele Venturini del “suo” relitto di Punta del Nasuto -e così, a ben ricordare, ho fatto per gli scavi archeologici del porto di Olbia e degli altri ai quali mi è capitato di essere presente o di collaborare; e così ho visto fare colleghi e amici a proposito dei loro studi: credo sia naturale, e forse è anche bene che sia così-.
Invece non sono ancora riuscito a capire come sono andate le cose a Marciana. Per quel che ne ho saputo, il vano di cui trattasi è stato trovato pieno di macerie, e svuotato completamente, immagino con la dovuta attenzione; ma le vicende storiche del sito, utilizzato fino a non molto tempo fa e con una certa continuità nei secoli, fanno immaginare che non siano presenti reperti che consentano datazioni sicure; e gli aspetti formali riconducono ad archi temporali un po’ ampi.
Certo tecnicamente è un ipogeo. Sulla qualifica di “etrusco”, mi sembrerebbe più prudente dire che “la sua tipologia architettonica” richiama gli ipogei etruschi – che sono riconosciuti tali per contiguità con insediamenti etruschi o per il contenuto di reperti riconducibili a quella cultura e così a una data plausibile-, restando in attesa della pubblicazione di elementi di sicura attribuzione che una auspicabile campagna di studio potrà individuare. Lo stesso mi sembra si possa dire della data di primo utilizzo del sito e dell’appartenenza (a una famiglia gentilizia? Lo si desume dal fatto che è grande?). Quindi, direi, al lavoro!
Per quanto riguarda l’attribuzione del sito alla Zecca degli Appiani, mi sembra che la documentazione storica prodotta, l’ubicazione, il toponimo utilizzato dalla tradizione locale, e la “tipologia architettonica” giustifichino sufficientemente una attribuzione comunque provvisoria.
Dovendo collocare una Zecca, non troverei niente di meglio che un ipogeo scavato nella roccia, che presenta una sola apertura facilmente controllabile a protezione dell’eventuale prezioso contenuto. L’archeologia e la storia producono infiniti casi di riutilizzo di infrastrutture per usi variati a seconda del tempo e delle esigenze. E del resto, lo stesso “ipogeo”, considerando anche il contesto territoriale della fascia collinare elbana, potrebbe essere riutilizzo di una preesistente tomba dell’Età del Bronzo, magari ricavata a sua volta da una grotta opportunamente adattata all’uso.
Condivido certamente l’interesse e l’indicazione di Venturini e di altri autorevoli interventi sulla necessità di approfondire lo studio del sito marcianese e di valorizzarne la presenza anche con un’opportuna informazione, proprio a partire dal dibattito in corso, magari spogliato da quel naturale ma forse non necessario piglio polemico: Ipogeo o Zecca, o Zecca dentro un Ipogeo, non c’è motivo di considerare una ipotesi più importante dell’altra sulla base di una predilezione cronologica, privilegiando cioè il più moderno sull’antico, o viceversa. Continuiamo a studiare. Per chi studia “sapere” non è un sostantivo, ma un verbo.
Luigi Totaro

Mi perdonerà Chiarissimo Professore se questa volta ho impaginato il suo scritto in una rubrica che di solito ospita le cialtronate del Direttore e di qualche suo disgraziato complice. Il fatto è che mi sono lasciato prendere dal - mi perdoni e mi consenta - sentore di presa di culo che si avverte tra le righe, ma anche sulle righe, del suo pregevole intervento, peraltro permeato da un buon senso che non è mai disdicevole, si parli di stiaccia coi fichi, di ipogei o di perinei.
Da marginale consumatore di cultura, privo degli strumenti analitici degli studiosi scesi in lizza l'un contro l'altro armati, mi viene non solo da sottoscrivere in toto quello che lei auspica,  e da aggiungerci di personale che talvolta prendersi troppo sul serio, trattando di questioni che certamente non cambiano i destini del mondo, specie in polemiche scientifiche o meno tirate alle lunghe, ha per effetto collaterale il  generarsi nell'uditorio di una sensazione di grave frattura degli apparati riproduttivi (c.f.r. - visto che siamo nel marcianese - il locale adagio "il sole secca li fichi e tu hai seccato li coglioni")
Non casualmente a corredo dell'articolo ho messo l'immagine della "linguaccia" di Einstein, per sottolineare come spesso i veri "grandi" siano campioni di ironia e di autoironia; le mezze cartucce in disperata arrampicata - come dice Cecilia - al più esprimono uno stitico e rancoroso sarcasmo.

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