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Perché gli elettori inglesi (e non solo) preferiscono votare gli idioti

Scritto da  Umberto Mazzantini da Greenreport.it Mercoledì, 22 Aprile 2015 08:18

La politica-marketing: l'’effetto Dunning-Kruger e la legge sull’ignoranza di Parkinson

In Gran Bretagna è in corso la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, con previsioni che mai come questa volta sono incerte e che probabilmente segneranno la fine del bipartitismo imperfetto Laburisti – Conservatori-Liberaldemocratici. Dean Burnett nell’articolo “Democracy v Psychology: why people keep electing idiots” pubblicato su The Guardian non dà certo un buon giudizio del clima politico che si respira: «E’ chiaro che fare o dire cose poco intelligenti non è un ostacolo per il successo politico. Purtroppo, ci sono diversi meccanismi psicologici che portano apparenti idioti ad a essere eletti in posizioni di potere».

Noi italiani possiamo amaramente consolarci con il fatto che quel che sembrava una caratteristica dell’era berlusconiana, con i suoi Razzi e Scilipoti, è diventata una “malattia” europea; ma come fa notare il Guardian, anche se la reputazione dei politici è scarsa – e in gran parte per colpa loro – «sarebbe sciocco presumere che ogni politico è così», perché se lo fossero crollerebbe il sistema. «Eppure, tutti danno per scontato che sono spregevoli, quindi presumono sempre il peggio».

Il prestigioso quotidiano britannico ripercorre molti dei luoghi comuni dell’elettore medio sul politico medio: «Un uomo politico mette in atto una cattiva politica? E’ una persona terribile. I politici cambiano la loro opinione e la ribaltano? Sono deboli e non adatti a comandare. I politici promettono miglioramenti (taglio delle tasse, aumento della spesa)? Stanno ovviamente mentendo. I politici promettono di fare qualcosa di impopolare (aumentare le tasse, tagliare le spese)? C’è la ferrea garanzia che accadrà. E’ una situazione lose-lose, quindi perché ci si preoccupa? Molti politici lavorano chiaramente per se stessi, d’altra parte ce ne sono sicuramente molti che davvero vogliono il meglio». Ma non è che questi ricevano grandi apprezzamenti dagli elettori.

Insomma, scrive Burnett, «non tutti i politici sono idioti (anche se la definizione di idiota può variare). Ma molti lo sono». Senza stare a scomodare i nostri provincialissimi politici che combattono con la grammatica e con i maiali nei campi rom, il Guardian cita gli esempi che vengono dal Paese simbolo della democrazia occidentale: gli Stati Uniti d’America, dove personaggi come Sarah Palin e Ted Cruz hanno partecipato o partecipano alla corsa elettorale per la presidenza del più potente Paese del mondo, per non parlare di quello che viene definito «l’archetipo di George W. Bush», che degli Usa è stato presidente per 8 anni e al quale l’appoggio delle grandi imprese ha messo in mano un arsenale nucleare in grado di distruggere varie volte il pianeta.

Ma The Guardian non risparmia certo i politici del Regno Unito, e come esempi di idiozia del sistema politico britannico cita Michael Gove, Chris Grayling , Grant Shapps, Jeremy Hunt, David Tredinnick, «un ridicolo partito laburista», l’aumento dei voti previsto per la destra populista e xenofoba dell’UK Independence Party (Ukip), e l’imbranato ma amato sindaco di Londra Boris Johnson. E su quest’ultimo Burnett ricorda che «un sacco di persone si affrettano a sottolineare che Boris Johnson è in realtà molto intelligente/pericoloso e che sta solo fingendo di essere un buffone. Ma questo sottolinea il punto: una persona intelligente deve fingere stupidità per raggiungere il successo politico».

Ma allora cosa sta succedendo alle democrazie? «A rigor di logica, servirebbe una persona intelligente che capisce i migliori approcci e i metodi per mandare avanti un Paese nel miglior modo possibile», sottolinea il Guardian, ma invece la gente sembra preferire chi manifesta capacità intellettuali discutibili. Sui motivi di questa tendenza pressoché “globale” il giornale britannico scrive che «sono coinvolti una vasta gamma di fattori ideologici, culturali, sociali, storici, finanziari e di altro tipo, perché la politica incorpora tutte queste cose, ma ci sono anche alcuni processi psicologici noti che possono contribuire a questo fenomeno». Diversi studi dimostrano che le persone che hanno fiducia in sé stesse sono più convincenti. Anche in tribunale, per una giuria una testimonianza sicura è più convincente di una nervosa e titubante. E’ lo stesso meccanismo che i venditori di auto usate e gli agenti immobiliari sfruttano da decenni e che è esploso nelle aste televisive. I politici della politica-marketing sono chiaramente a conoscenza di questi meccanismi e la loro formazione è ormai più da esperti di media e da PR che da statisti, mentre qualsiasi politico che non appare sicuro e fiducioso viene metaforicamente distrutto. «Quindi la fiducia è importante in politica», dice Burnett.

Il problema è quello che viene definito comeeffetto Dunning-Kruger: le persone meno intelligenti di solito sono incredibilmente piene di sicurezze, mentre le persone più intelligenti non lo sono affatto. «L’autovalutazione è una competenza metacognitiva utile, ma che richiede intelligenza; se non se ne ha molta, non ci si considera menomati o ignoranti, perché tecnicamente non si ha la possibilità di farlo. Quindi, se volete una persona intrinsecamente sicura che rappresenti pubblicamente il vostro partito politico, un individuo intelligente sarebbe per molti versi una cattiva scelta».

La qual cosa può ritorcersi contro i politici – come avviene spesso –, visto che altri studi hanno dimostrato che quando una persona piena di sé sbaglia o mente viene considerata molto meno affidabile di un’altra con la quale non ci sentiamo in sintonia. «Questo potrebbe spiegare l’immagine negativa della politica, che è fatta per lo più da una serie di individui baldanzosi che fanno grandi promesse, e che falliscono miseramente nel mantenerle», si legge sul Guardian, ed è questo genere di cose che fa arrabbiare la gente… che però continua poi a votare gli “idioti”.

Il problema è che la politica è una cosa complessa, e che governare un Paese come l’Italia o la Gran Bretagna, con decine di milioni di cittadini che hanno idee ed esigenze diverse, è un lavoro incredibilmente complicato. «Ci sono così tante variabili da tenere in considerazione – osserva Burnett – Purtroppo, è impossibile condensare tutto questo in un soundbite adatto all’uso per i media moderni, quindi le personalità tendono a venire alla ribalta più spesso. E le personalità meno intelligenti sono più sicure, quindi sono più convincenti, e così via».

L’altro problema è che le persone comuni sono scoraggiate da argomenti e discussioni intellettualmente complessi: spesso non conoscono il problema, o possono trovare troppo scomodo impegnarsi a capirlo perché richiederebbe tempo e fatica. Ma questo è il contrario della vera democrazia che richiederebbe il coinvolgimento delle persone, degli elettori, nella risoluzione dei problemi pubblici.

Gli studi sulla personalità suggeriscono che molte persone dimostrano un orientamento verso un obiettivo, una «disposizione verso lo sviluppo o a dimostrare le loro capacità in situazioni di realizzazione». La sensazione che si sta influenzando attivamente qualcosa, come nel caso delle elezioni, è una motivazione forte, ma se un politico comincia a dire paroloni sui tassi di interesse o sulla gestione del deficit della sanità, chi non capisce o non si interessa di queste cose si allontana. Quindi, se un politico dice con sicumera che esiste una soluzione semplice o promette di fare in modo che una cosa molto complicata sparisca, questo può diventare molto più attraente di chi cerca di trovare davvero una soluzione che non può che essere complessa. E’ un po’ la ributtante operazione, semplificatoria fino al razzismo, che Salvini e la Lega, e compagnia fascista cantante, fanno con i rom e i migranti.

La cosa è dimostrata anche dalla cosiddetta legge sull’ignoranza di Parkinson, che dice che le persone e le comunità hanno la tendenza a dare un’importanza sproporzionata a questioni insignificanti ma più accessibili all’opinione pubblica media, mentre non lo fanno quando si tratta di qualcosa di complicato. Quindi il politico che offre ricette semplicistiche ha più consenso e influenza. «La gente ama le cose banali – riassume Burnett – ergo le persone meno intelligenti che condensano le grandi questioni in piccoli (ma inaccurati) frammenti sono potenzialmente i vincitori delle elezioni».

Alla gente comunque piace identificarsi con il politico. Una delle (poche) qualità che venivano spesso citate dagli elettori Usa per giustificare il voto dato a George W Bush è che pensavano di poterci bere una birra insieme, quindi pensavano di poter entrare in relazione con l’ex presidente Usa, rampollo “scemo” di una elitaria e ricchissima famiglia. Invece l’elitarismo “politico” è considerato una qualità negativa, e per molti l’idea che chi governa il Paese sia una persona intellettualmente al di fuori della “normalità” della società è allarmante. Per questo i politici si sforzano costantemente di sembrare “normali”, di adattarsi al sentire comune. In una situazione come questa ogni possibile orizzonte di cambiamento scompare.

La maggior parte delle persone è incline a numerosi pregiudizi inconsci e stereotipi e preferiscono stare solo con i propri “gruppi”. «Nessuna di queste cose è particolarmente logica – spiega Burnett – e invariabilmente non sono supportate da dati di fatto e dalla realtà; alla gente davvero non piace ascoltare cose che non vuole sentirsi dire. Le persone sono anche ben consapevoli dello status sociale. Abbiamo bisogno di sentire che in qualche modo siamo superiori agli altri, e di mantenere il nostro senso di autostima». Il risultato è che chi è più intelligente e dice cose complesse che contengono fatti scomodi (ma accurati) non sta bene a molti. Mentre chi è palesemente meno intelligente, che dice cose semplici supportando pregiudizi e negando fatti scomodi, e non è percepito come qualcuno con un diverso status sociale dal proprio, piace molto di più.

«E’ una situazione spiacevole – conclude The Guardian – ma sembra proprio essere il modo in cui lavorano le menti delle persone». Naturalmente, la cosa è ancora più complicata, ma ciò che resta della sinistra occidentale e italiana, che è ormai ai margini di questo tipo di politica e non ha (fortunatamente) gli strumenti ideologici e (a)morali per entrarci, deve prendere atto che – al di là di cosa si possa pensare del berlusconismo, del renzismo o del lepenismo leghista e dei vari populismi figli di una corsa al centro che è sbandata a destra – è questo il modo per convincere la gente e che è ovvio che battere la semplificazione con la narrazione della complessità e con i fatti è un’impresa da titani, che nel frattempo sono diventati i nani in un mondo dominato dalla politica marketing, senza prospettive e futuro, che nega i problemi sistemici, che ne inventa di inconsistenti e si ciba di emergenze. Una situazione che riecheggia “La prevalenza del cretino” di Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

Insomma, quel che resta della sinistra – ma anche l’ambientalismo scientifico, che oggi della complessità dovrebbe essere necessariamente uno dei maggiori interpreti – non può rifugiarsi elitariamente (come spesso è tentata di fare) nella frase di Dean Burnett che chiude l’articolo del Guardian: «Penso che la democrazia sarebbe perfetta, se non fosse per tutte le persone coinvolte».

Umberto Mazzantini

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