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A Sciambere Speciale - Zecchineide

Scritto da  Gian Piero Berti Domenica, 26 Luglio 2015 17:42

Riceviamo da Gian Piero Berti - ex-docente e preside del Liceo Foresi ed ex-amministratore elbano, una lunga (ma dichiaratamente spassosa) "recensione" dell'ultima fatica del Prof. Zecchini. Berti ha scritto un quasi pamphlet  (assessore no, il pamplhet non è specialità gastronomica francese e non si mangia), con il quale impietosamente crocifigge tanto l'erudito marinese quanto i suoi fidi e/o occasionali corifei. Una ventata di aria colta e fresca in un'estate elbana che le numerose esternazioni "a mentula di veltro" dei maggiorenti, hanno contribuito a rendere ancor più afosa e uggiosa.

Siamo orgogliosi di ospitare questo occasionale "ritorno sulla scena" dell'amico Gian Piero che - la classe non è acqua - mostra a distanza di tanti anni di aver mantenuto (e pure affinato) tutte le sue impagabili capacita di stilettare satirico.  Buon divertimento. 

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IL FORNICE DI PORTA A TERRA

In un libro del prof. Zecchini (inviato gratis in tutte le case di Marciana Marina) ho letto alcuni giudizi su una questione che sembrava archiviata da quarant’anni: Zecchini rinfaccia all’ex-sindaco di Portoferraio Giovanni Fratini “la profonda ferita che è stata inferta alle mura di Cosmopoli con l’apertura del fornice di Porta a Terra”. Definisce il fornice come un “danno per sempre”: un danno tanto grave che deve servire addirittura da “monito” (pag. 214).

Zecchini ricorre alla parafrasi di una famosa frase di Tucidide - κτῆμα ἐς αἰεί, dono per sempre - rovesciandone però il significato. Col gioco di parole dono-danno, vuole sbeffeggiare la barbara ignoranza di chi osò “ferire”le mura della città. E il rimprovero è esteso ai cittadini di Portoferraio, corresponsabili di “manomissioni di cui la città di Cosimo è stata più o meno silenziosa testimone e verso cui ha mostrato scarsa reattività”. 

Poiché io ero allora fra i collaboratori di Fratini, le accuse concernono anche me. Se, dopo quarant’anni, Zecchini usa espressioni forti come ferita profonda, monito, manomissioni, danno per sempre, è evidente che ci considera colpevoli di un scempio, di una vera catastrofe.

Avevamo il mandato degli elettori di fare il bene della città: invece secondo Zecchini, l’abbiamo devastata. Sono accuse offensive, infamanti. Perciò mi sento in dovere di replicare con fermezza.

“È L’ORA DI RIBELLARCI”

Sul fornice Zecchini ritorna in un’altra pagina. Ricorrendo al dialogo (un genere letterario che vanta precedenti illustri come i dialoghi di Leopardi, Galileo, Platone), immagina di conversare in sogno con Cosimo dei Medici: il tema della conversazione è la tutela della città.

Nella presentazione del libro, Fabrizio Prianti definisce il dialogo nientemeno che magistrale”, con evidente riferimento a quei precedenti.

Le prime parole - nelle intenzioni dell’autore - dovrebbero essere brillanti e argute: “granduca, cosa significano tante palle nel suo stemma?”. La curiosità di Zecchini è appagata da Cosimo con pronta schiettezza: “per attuare i miei progetti me ne servivano sei”: due erano per la guerra, due per l’arte… Zecchini incalza: “e le due rimanenti?”. È facile immaginare la risposta.

Soltanto Prianti riesce a giudicare “sottile” questa ironia, che altri trovano, pour cause, sbracata. 

La disquisizione sulle sei palle dei Medici non ha nessun collegamento logico con la tutela della bellezza della città. Ma Zecchini voleva apparire spiritoso e, non trovando di meglio, ha pensato di ricorrere a un umorismo “grossier”, che è sempre di facile smercio.

Chiuse le poco leggiadre divagazioni sullo stemma, Cosimo-Zecchini passa alla protesta: “i vostri eletti traforano le poderose mura per farci passare le macchine”. Si sente “tremendamente oltraggiato”, al punto che, se tornasse indietro, costruirebbe Cosmopoli altrove.

Altrove? Zecchini dipinge Cosimo come un sempliciotto, che si preoccupa di trovare il luogo più adatto per una delle ville destinate all’ameno soggiorno della corte. Gli sfugge che la città fortificata fu costruita qui per una scelta strategica. I pirati saraceni infestavano proprio questi mari: contro le navi barbaresche una fortezza nel Mugello o nel Chianti sarebbe stata decisamente inefficace.

Zecchini invita il Granduca a non accalorarsi, anche se - osserva con ilare arguzia, degna dei dialoghi di Luciano - è improbabile che un defunto possa avere un infarto (sic).

Cosimo-Zecchini ironizza sul sistema democratico e sulla qualità degli “eletti” (un lapsus freudiano, con inconsci riferimenti marcianesi?). Elogia i pregi dell’autocrazia: “quant’era bello il sedicesimo secolo”. Conclude con uno slogan stentoreo, più adatto a un leader di Lotta continua che a un granduca: “È l’ora di ribellarci”.

A chi è rivolto l’invito alla ribellione? A quel popolo verso cui Cosimo-Zecchini ostenta disistima?

Nelle considerazioni di pagina 214 e nell’ineffabile dialoghetto le accuse sono pesanti e, insieme, generiche e nebulose: Zecchini parte da un principio semplice: “Cosmopoli” è perfetta così come Cosimo la fece: perciò ogni intervento è un sacrilegio. Non si deve muovere nulla: mai.

CROZZA E IL PROF. ANTONINO ZICHICHI

In una società democratica è normale che le decisioni degli amministratori siano criticate: quindi Zecchini ha il diritto di esprimere il suo dissenso, seppure con quarant’anni di ritardo.

Se Zecchini sostenesse che il fornice era un’opera inadeguata o superflua o troppo costosa…, si potrebbe aprire un confronto, soppesando gli argomenti a favore e contro. Ma Zecchini non cerca il confronto: non vuole perdere il suo tempo per discutere di traffico. Per lui era “bello il sedicesimo secolo”: nei tempi felici di Cosimo (e anche in quelli di Napoleone), nel centro storico non c’erano automobili. Al più, qualche carrozza a cavalli. Cosmopoli deve restare ibernata in quelle condizioni.

Dunque non c’è spazio per un “confronto”, perché la contrapposizione è di natura assiologica: riguarda i valori: per lui l’assoluta intangibilità di Cosmopoli è un valore non negoziabile. I tentativi di conciliare la tutela della città con le esigenze degli abitanti sono da respingere a priori.

È insopportabile questo dogmatismo coriaceo, espresso con tono saccente. Lui non parla come un comune mortale, che dialoga con gli altri in condizione di parità. Si sente l’oracolo: la Pizia.

Guarda gli altri dall’alto in basso con commiserazione, giudicandoli tutti intellettualmente inferiori.

È convinto di essere l’unico che detiene la verità. Si compiace di ammantarsi dell’autorità della scienza: non perde occasione per definirsi scienziato e vantare la sua vita dedicata alla ricerca scientifica. Tira in ballo la scienza anche nei momenti più banali: racconta con sussiego che in una occasione decise di fare una telefonata per “una delle basi metodologiche di un ricercatore quale io sono da quattro decenni”. Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe Totò.

Un ritornello martellante, asfissiante, che ripropone -in salsa scientifica” - la vecchia frase famosa “ma tu non sai chi sono io”: io sono nientepopodimeno che uno Scienziato.

Viene in mente il refrain in falsetto del prof. Zichichi imitato da Crozza: “e questa è Sciiienza”.

L’Amministrazione Fratini voleva affrontare un aspetto del complesso problema del traffico. Ma a Zecchini sembra meschino che un sindaco si occupi di bazzecole come il traffico: descrive gli amministratori come bambini sconsiderati, che giocano con la città come se fosse il plastico del trenino elettrico, divertendosi a traforare i bastioni per uno scopo bizzarro: “per farci passare le macchine”. Questo atteggiamento altezzoso di sufficienza e di derisione è provocatorio.

Non riconosco a Zecchini l’autorevolezza culturale per impartirci lezioni. Ma chi crede di essere?

LA SINDROME DI BARTALI

Nel libro Zecchini appare affetto dalla sindrome di Bartali: “è tutto sbagliato; è tutto da rifare”.

È sbagliato il veleno per i topi neri dell’isola di Montecristo. È sbagliato il muretto sullo scoglio della Madonna del Monte. E ancora sono sbagliati i lumini per la processione della santa patrona; i restauri di Pianosa; la tinteggiatura delle case del Cotone; l’intonaco delle fortezze; le interpellanze dei consiglieri d’opposizione; una didascalia del museo della Linguella; un opuscolo turistico; gli scavi a San Giovanni; la parola domolito. Si presenta come lo scienziato specializzato in tuttologia, pronto a scodellare la ricetta perfetta per ogni occasione: - mo’ te spiego io ‘ndo abbiti.

Appartiene a quel genere di persone che volentieri si vantano di essere super partes: quelle persone che giudicano e mandano perché sentono di avere la Giustizia nel DNA, come il re Salomone. Di continuo il Professore sale in Cattedra: e dalla Cattedra affibbia bacchettate a tutti.

A Roma direbbero: “ma Cattedra de che?”  

Proviamo a chiarire meglio il senso di quel fornice. Zecchini abitava a Portoferraio negli anni ’50, quando frequentava il liceo Foresi, che definisce (bontà sua) “prestigioso”. Poi ha scelto di vivere la sua vita lontano dall’Elba: e, durante mezzo secolo, all’isola è ritornato per le vacanze nella sua casa di Marciana Marina. A Portoferraio mette piede per poche ore all’anno: per lui la nostra città è soltanto un ricordo dell’adolescenza: un ricordo remoto, circonfuso dell’aura romantica e nostalgica del tempo che fu. Nella sua mente questa città non è la città reale in cui viviamo noi: egli tende a identificarla con la Cosmopoli di cinque secoli fa: un’entità libresca, un’astrazione. Continua infatti a chiamarla Cosmopoli: sembra non aver capito che la città non si chiama più Cosmopoli, ma Portoferraio, e che è abitata da persone concrete, alle prese con le necessità della vita quotidiana.

Che piaccia o no a lui, fra i problemi della vita quotidiana c’è anche l’uso dell’automobile.

Zecchini non ha conosciuto i disagi provocati dal traffico, quando l’unica via d’accesso al centro storico era la Calata. A lui non importa se negli ingorghi pazzeschi restavano bloccati i veicoli dei vigili del fuoco, le ambulanze, le auto della polizia e dei carabinieri, i mezzi di trasporto di chi si muoveva per il suo lavoro. Creare una strada alternativa alla Calata era una scelta necessaria.

Gli elettori approvarono: nelle urne Giovanni Fratini ottenne una riconferma massiccia.

Per richiudere il fornice bastano due semplicissimi muretti: perché nessuno li ha mai proposti?

COSMOPOLI O PORTOFERRAIO ?

Quanto al rispetto per l’integrità di Cosmopoli che è perfetta così come Cosimo la fece, suggerisco allo Zecchini di aprire il suo libro alla pagina 42, dove è riprodotta una litografia preparata da un bravissimo disegnatore, André Durand, che Napoleone III inviò qui perché voleva conoscere le immagini del piccolo regno del suo grande zio. Vada alle Ghiaie con la stampa del Durand. Si sforzi di aprire bene gli occhi e verifichi quanto la città di oggi rassomigli a quella di Napoleone o di Cosimo. E poi si trasferisca a piedi fino alla Linguella e al Grigolo. Già alle Ghiaie Zecchini noterà che le fortezze sono nascoste dalle palazzine di via Ninci e dalle caserme. All’epoca del Durand le caserme e le palazzine non c’erano, e un “profondo fossato” (Mellini) collegava il mare con la baia interna. Sul fossato un ponticello levatoio era l’unica via di collegamento fra la Porta a terra e l’isola: il fossato e il ponticello sono scomparsi. Del ponticello resta il toponimo. Tra le  fortezze e il fossato non c’era nulla: oggi ci sono negozi, abitazioni, uffici. Dove il fossato entrava nella baia, c’è la banchina a alto fondale. In origine non esisteva una strada di collegamento con la Calata.

A occidente del fossato sono sorti il palazzo Vanoni e tutti gli edifici racchiusi fra via Manganaro e il porto attuale, compresi i cosiddetti grattacieli.

Superata l’orrenda Gattaia (per la quale l’unica soluzione razionale è la demolizione completa), si arriva al molo Gallo, da dove lo sguardo si estende sull’intera Calata e sui forti. Rispetto all’epoca di Cosimo, l’ampiezza della Calata è raddoppiata: la banchina portuale è divenuta una strada alberata. I bastioni sono stati svuotati o rimpiazzati (dopo i bombardamenti) con edifici moderni. Al posto delle austere fortezze ci sono tavolini dei bar, vetrine dei negozi, banche, uffici. Sui bastioni c’è una successione continua di superfetazioni: sono state costruite un centinaio di abitazioni.

Soltanto nel brevissimo tratto della Porta a mare l’aspetto dell’antica fortezza è rimasto immutato o quasi. Tutto il resto è cambiato. Accanto alla Porta a mare i bastioni sono sostituiti da due archi, che consentono alle automobili di entrare in piazza Cavour e in tutta la città vecchia. Proseguendo fino alla Linguella e al Grigolo, si trovano altri bastioni svuotati e ricoperti da superfetazioni. Ci sono case davanti e sopra il forte Stella. Fra la Cosmopoli delle origini e la Portoferraio di oggi c’è una differenza di almeno due milioni di metri cubi. Su questi mutamenti è inutile pronunciare giudizi di approvazione o di dissenso: limitiamoci realisticamente a constatare i fatti nella loro portata.

MIOPIA COLOSSALE

Zecchini censura soltanto il tunnel fra via Guerrazzi e via Senno: non si accorge di quei milioni di metri cubi di nuove banchine, nuovi edifici, superfetazioni e bastioni stravolti.

Una miopia stupefacente. Una miopia così colossale che non sembra nemmeno credibile.

Quei fatti non sono opera di lontanissimi antenati, vissuti nella notte dei tempi: quando a Portoferraio nacque il mio nonno materno, le trasformazioni non erano ancora iniziate. C’è un libro interessante, pubblicato dal Comune (a cura dell’assessore Danilo Alessi), in cui sono riprodotte molte vecchie foto, che documentano alcune tappe di quel cambiamento.

Zecchini vuole tornare alla città napoleonica? Abbia il coraggio di dirlo: proponga di demolire le caserme, le palazzine, le banchine, le case sopra i bastioni e i forti. Chieda di murare i negozi, di chiudere i due fornici presso Porta a mare, di ripristinare il fossato, di distruggere i  grattacieli.

Oggi questa proposta appare utopistica, assurda: e non solo per i costi. Ormai i buoi sono usciti dalla stalla: le scelte sullo sviluppo della città sono irreversibili. Perciò la polemica sul fornice di via Guerrazzi è anacronistica: non fu il fornice dell’Amministrazione Fratini a indirizzare e condizionare il futuro della città. La creazione di una via d’accesso alternativa alla Calata fu soltanto un intervento per razionalizzare scelte urbanistiche che erano già consolidate da decenni. 

PARIGI VIENNA FIRENZE ROMA

Queste riflessioni sulla trasformazione di Portoferraio rientrano in un discorso più generale sulla metamorfosi dei centri urbani sotto la spinta delle esigenze dei tempi nuovi.

Perciò vorrei uscire dalla discussione su Cosmopoli città perfetta, introducendo qualche paragone con città più famose della nostra. Nell’Ottocento tutte le grandi città europee conobbero gli "sventramenti": i quartieri medievali furono sostituiti con nuovi palazzi e ampie strade.

A Parigi le mura erano già state abbattute alla fine del 1600, per creare viali alberati molto larghi; altre demolizioni e nuovi grandi viali furono decisi durante il Secondo Impero per iniziativa del famoso prefetto Haussmann. A Vienna il Ring nacque quando l'imperatore Franz Joseph, nel 1857, ordinò di smantellare le vecchie mura, per costruire un elegante doppio viale, lungo il quale sorsero il Parlamento, il Municipio, teatri e musei (il famoso Kunsthistorisches Museum), l’Opera, l’Università, aree verdi. La cinta muraria di Madrid venne rasa al suolo nel 1860; quella di Londra, fra il Settecento e l’Ottocento. Gli sventramenti di Bruxelles avvennero intono al 1870. A Berlino si demolirono mura e quartieri medievali già nell’Ottocento, prima delle drammatiche distruzioni della seconda guerra mondiale. Le antiche mura di Firenze vennero eliminate a partire dal 1865, per dare alla nuova capitale dell'Italia unita un volto funzionale e moderno, come quello delle altre capitali europee: i grandi viali, che circondano il centro, imitano i viali di Parigi. Demolizione di mura e di vecchi quartieri anche a Milano, Bologna, Torino.

A Roma le mura aureliane del terzo secolo ebbero maggiore fortuna. Però, presso Porta Maggiore, per far passare i molti binari diretti alla vicina stazione Termini, fu abbattuto un tratto delle mura imperiali; il passaggio del raccordo ferroviario meridionale fu realizzato demolendo quattro torri e cinque cortine murarie limitrofe. Lungo il viale di Campo Boario le mura furono tagliate per il collegamento con l’interno del mattatoio: la strada del mattatoio prevalse sulle mura dei Cesari.

Quando, intorno alla metà del Novecento, fu costruita la via Cristoforo Colombo, un tratto delle mura aureliane fu sostituito da quattro grandi archi consecutivi.

Corso Vittorio Emanuele e via dei Fori imperialifurono aperti cancellando interi quartieri medievali.

Per salvare Roma dalle frequenti inondazioni del Tevere, furono eretti i “muraglioni dei Piemontesi”: l’opera sconvolse l’aspetto del lungotevere. I porti fluviali di Ripetta e Ripa grande scomparvero. Del ponte Cestio (costruito qualche decennio prima di Cristo) rimase intatta soltanto l’arcata centrale. Ai panorami dei giardini signorili, che erano stati ammirati dai viaggiatori del Grand Tour, e che avevano affascinato Goethe e Stendhal, subentrò il calcestruzzo dei nuovi argini (qualcosa di simile vuol fare - col plauso di Zecchini - il sindaco di Marciana Marina, che progetta  di coprire con una colata di cemento la spiaggia del lungomare che porta alla Torre). 

BASTIONI DI MICHELANGELO

Ancora a Roma, dopo la firma dei Patti lateranensi, il papa Pio XI volle la sua minuscola stazione ferroviaria: nella parte meridionale dei bastioni vaticani fu aperto un varco da cui passano i binari.

Un altro varco fu aperto, in quegli stessi anni, in un bastione del confine settentrionale del Vaticano, per consentire l’ingresso ai Musei direttamente dal territorio italiano. Questo accesso del 1932 parve insufficiente a Giovanni Paolo II: perciò, in vista del Giubileo del 2000, fu creato un secondo grande accesso in un bastione contiguo. Nella guida ufficiale ai Musei il nuovo ingresso è esibito come un’opera di cui menar vanto: con toni quasi trionfalistici, il libretto spiega che, svuotando il bastione e asportando quarantamila metri cubi di terra, si è ottenuto un vasto ambiente, in cui sono ora sistemati uffici, negozi, biglietterie e tutte le strutture ricettive di un museo che conta sei milioni di visitatori ogni anno (ventimila al giorno).

A breve distanza dai Musei vaticani, tra la via di Porta Angelica, la piazza Risorgimento e il viale dei Bastioni di Michelangelo, la lunghissima fila dei visitatori diretti ai Musei passa accanto a una larga porta bronzea con lo stemma di papa Ratzinger: è la porta di Santa Rosa, che è stata aperta nelle mura vaticane nel 2006. Appena nove anni fa!

In compagnia di Fratini, anche Pio XI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI vanno annoverati tra coloro ai quali Zecchini rinfaccia di aver barbaramente traforato e ferito storiche mura.

Meglio non parlare di Pio VI, che, per ristrutturare il Belvedere, fece eliminare nel 1780 la cappella di Innocenzo VIII affrescata dal Mantegna e alcune sale e logge del Pinturicchio. Gli affreschi di Mantegna e Pinturicchio non furono “strappati” e salvati, ma distrutti col piccone e gettati via come calcinacci. Nel 1506 Giulio II aveva posto la prima pietra della Basilica attuale, ordinando a Donato Bramante - “maestro ruinante” - di smantellare la basilica costantiniana, con i suoi tesori di pittura e architettura, rimpianti da Federico Zeri. Furono abbattuti mosaici e pitture di Cimabue, Giotto, Pietro Cavallini, Beato Angelico, Perugino… Le demolizioni proseguirono per un secolo. 

LA CITTÀ LEONINA

Accanto al braccio settentrionale del colonnato del Bernini, si incontra il “Passetto di Borgo”, un muro che inizia da Castel Sant’Angelo e che proteggeva verso nord la “città leonina”: Leone IV, a partire dall’anno 848, costruì questo muro a difesa della basilica, dopo un saccheggio dei pirati saraceni, le cui navi avevano risalito il Tevere. Arrivato in prossimità di San Pietro, il muro, con un largo giro, circondava la chiesa e ritornava poi fino al Tevere, seguendo il tracciato dell’attuale borgo Santo Spirito. In epoca rinascimentale furono aggiunti i bastioni di Michelangelo.  

I pellegrinaggi alla tomba di Pietro erano cominciati già dal secondo secolo, come attesta la lettera del presbitero Gaio, citata da Eusebio di Cesarea. Nell’arco di molti secoli, milioni e milioni di contadini, monaci, mercanti e cavalieri si sono mossi dalla Francia, dalle Fiandre, dalla Germania e da tutta Europa, per dirigersi verso le Alpi. Dopo aver valicato i monti, i Romei percorrevano la via Francigena e raggiungevano Roma. Entrando in città attraverso Monte Mario, i pellegrini dall’alto scorgevano la grande basilica costruita sulla tomba dell’apostolo: era un momento di intensa commozione. Con Bonifacio VIII iniziò la serie degli anni santi: al primo giubileo del 1300 partecipò anche Dante, che descrive le file ininterrotte di persone che camminavano sul ponte Sant’Angelo, tra la città leonina e la riva sinistra del Tevere. Giovanni Villani parla di una folla mai vista prima.  La città leonina faceva parte dell’immaginario collettivo degli abitanti della Res Publica Christianorum. Tutti gli europei - uomini e donne, poveri e ricchi, analfabeti e dotti - sapevano che nella chiesa più grande e più splendida della Cristianità era sepolto il pescatore di Galilea.

Eppure il passetto di Borgo, che misura ottocento metri, è stato “traforato” ripetutamente. All’inizio aveva una sola porta e due postèrule cioè due piccolissime porte secondarie: oggi gli archi attraversati dal traffico automobilistico sono una trentina. Nel 1933 fu aperto un fornice vicino a quello di via di Porta Angelica. Nel 1948, fu aggiunto un fornice per il passaggio del bus “64”. L’ultimo fornice è del 1950, in via dell’architetto Mascherino. Ancora dentro la città leonina, a pochi metri dal Passetto, fu rasa al suolo la “Spina di Borgo”, per costruire la via della Conciliazione. 

PROVINCIALISMO RIDICOLO

Confrontiamo Cosmopoli con la città leonina. Zecchini scrive che Cosmopoli è la città del mondo. Queste reboanti parole retoriche suonano bene, ma il significato è oscuro: nel mondo quelli che conoscono la storia di Cosmopoli non arrivano a diecimila. E ci sono molte città del mondo che meritano di essere protette. Di proposito mi sono soffermato sulla città leonina, perché è stata nei secoli il luogo più noto dell’Occidente: se qualcuno - affetto da provincialismo - volesse sostenere che Cosmopoli è più sacra della città leonina, semplicemente si coprirebbe di ridicolo.

Nella storia dell’urbanistica il nostro modestissimo fornice non è assolutamente paragonabile con gli sventramenti che hanno distrutto mura, quartieri, monumenti, basiliche, opere d’arte a Roma e in tutta Europa. Però questi fatti lasciano Zecchini del tutto indifferente. Soltanto il tunnel di via Guerrazzi gli sembra un’offesa alla Cultura: un “danno per sempre”, un disastro. Non lo capisco.

Dedica ventitre pagine ai restauri dell’isola di Pianosa, ma non c’è una parola sugli orrori perpetrati a Pompei - il sito archeologico più noto del mondo - dove il plenipotenziario del governo Berlusconi ha “restaurato” il Teatro Grande con ampio uso di cemento, betoniere, ruspe, martelli pneumatici. Tutti i grandi giornali stranieri hanno riso di noi: e il Corriere della Sera (non il Manifesto!) ha scritto che la cavea ricostruita ex novo sembra uno scherzo, come mettere i baffi alla Gioconda. Però l’archeologo Zecchini non se ne cura. L’avesse fatto la dott. Silvia Ducci! 

NUOVE PORTE E FINESTRE NELLA TORRE

La prova di quanto lo Zecchini assiso in cattedra sia super partes si trova a pagina 147, dove egli protesta con sarcasmo per il “balconcino” costruito sulla sommità del grande scoglio dell’Aquila nei pressi della Madonna del monte: un piccolissimo muro, facilmente eliminabile, sorto per impedire che gli operai addetti alla sorveglianza contro gli incendi precipitassero dallo scoglio.

Zecchini (che trova da ridire perfino sul colore grigio-topo del muretto) osserva sprezzante che nessuno costruirebbe quel casotto sulla torre di Pisa. Singolare il paragone con la torre di Pisa.

Ma lo sdegno di fronte al “balconcino”, in un luogo su cui posa gli occhi meno dell’uno per mille dei visitatori e dei residenti, contrasta col compiacente silenzio nei confronti delle manomissioni subìte dalla torre di Marciana Marina, che è assai più visibile di uno scoglio sperduto in cima a un monte.

Zecchini sa bene che il muro della Torre è stato sfondato per aprire una seconda porta verso nord: un intervento inqualificabile.Le foto delle pagine 252 e 253 del libro mostrano che sono state aperte anche alcune finestre e che nelle pareti esterne sono state scavate lunghe “tracce” per far passare tubi di scarico. A pagina 221 del libro c’è una piccola foto con un particolare della torre: al centro si vede una macchia nera su uno scoglio. Zecchini ha riprodotto la foto per far notare le macchie prodotte dalle luminarie per la festa patronale. Però nella stessa foto, leggermente più in alto, sulla destra, si scorge una finestra ricavata - in modo illegittimo -nel muro della torre. È curioso che l’occhio esperto dello scienziato, che ha dedicato la vita alla ricerca, sia rivolto a una macchia su uno scoglio e non si accorga che il muro della torre è stato sfondato.

Zecchini abbia l’onestà di riconoscere che la legge vietava di traforare e scalpellare le mura.

Per prendere le difese dei proprietari abusivi, Zecchini si improvvisa giurisperito: e argomenta che il giudice civile ha ritenuto evidente che l’acquisto illegale della torre non fosse reato: altrimenti avrebbe trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica. Un ragionamento raffazzonato: il giudice civile non poteva pensare che fosse penalmente perseguibile una persona già morta da trent’anni. Però Zecchini approfitta dell’occasione per rivolgere ai consiglieri d’opposizione un predicozzo dai toni esasperati, definendo “vergognose” le loro proteste per un’illegalità durata decenni.

È fuori di dubbio che Raffaello Brignetti è stato uno scrittore di rilievo, i cui libri hanno vinto i due maggiori premi letterari italiani. Fa onore al nostro paese che sia stato uno di noi. Ci piace sapere che fosse affezionato ai nostri monti, alle nostre strade, al nostro mare, al nostro modo di parlare. Ma che c’entra tutto ciò con l’uso indebito e con le pesantissime alterazioni della torre? La legge si applica anche agli scrittori di successo.

Ritorniamo al fornice di via Guerrazzi, i cui lavori furono invece eseguiti per un interesse pubblico e con tutte le autorizzazioni previste. Zecchini giudica uno scandalo che sia stato creato un varco alternativo alla Calata, per attenuare i disagi dei tremila abitanti del centro di Portoferraio. Dei loro disagi non gliene importa niente (anche perché lui abita a Lucca). Però, quando vengono sfondate le mura della Torre di Marciana Marina, per aprire una seconda porta a vantaggio di due sole persone (che definisce sue amiche), allora il suo rigore adamantino svapora e si dilegua: l’intransigente vestale del Bello non si accorge di nulla: e ha il muso di gridare “vergogna” contro chi chiede che la legge sia rispettata. Questo doppiopesismo appare davvero spavaldo: dopo mezzo secolo trascorso a Lucca, Zecchini ora pensa che gli Elbani portino l’anello attaccato al naso, come i mitici indigeni dei mari del sud, e siano disposti a prendere per vera ogni favola. 

IL “PRESTIGIOSO” LICEO FORESI

Zecchini parla più volte del “prestigioso” liceo classico Foresi, ricordando anche i nomi di tre docenti, di cui elogia “l’alto magistero”. Perciò voglio dargli una notizia. Proprio uno di quei tre docenti tanto stimati da lui era l’assessore ai lavori pubblici della nostra giunta comunale: quindi fu lui - per la sua competenza istituzionale - a occuparsi direttamente del fornice di via Guerrazzi.

Come docente di letteratura italiana, il professor Uberto Lupi parve al giovanissimo studente Zecchini una persona veramente fuori del comune. E io confermo le sue impressioni, perché ho conosciuto da vicino quel docente, di cui sono stato alunno, collega, collaboratore e amico personale durante moltissimi anni, sperimentandone la profonda cultura, la sensibilità, la dirittura morale e l’intelligenza: la persona più intelligente che ho incontrato durante i miei 75 anni.

Mi domando come Zecchini possa giudicare quella stessa persona tanto ignorante e ottusa e barbara da non capire la bellezza di questa città.

È evidente che alto magistero e barbara insensibilità sono giudizi tra loro incompatibili. 

RE MARCINNA

Non sono riuscito a leggere il libro per intero, perché troppo dispersivo e talora sibillino: ma molte pagine mi lasciano perplesso. Mi limiterò a esporre ora alcune “chicche”, perché si possa misurare quanto siano approssimative e non “scientifiche” le sue burbanzose affermazioni.

Sulla base di qualche mito e di interpretazioni temerariamente arzigogolate di carte geografiche e toponimi, il libro prospetta alcune ipotesi degne di Dan Brown (o dei fratelli Grimm).

A pagina 278 c’è un vero coup de théâtre: appare all’improvviso Marcinna, anzi Larth Marcinna.

Marcinna ! Chi era costui?

Ci viene rivelato che la “metropoli” di Marciana fu fondata da un “regale personaggio”: un larth, un principe etrusco, che si chiamava re Marcinna o re Marcena o re Marcna o re Marxna o “quale che fosse” (sic). Del re Marcinna, che dette il suo nome alla metropoli di Marciana, nessuno ha mai sospettato l’esistenza. Ma tra le prove provate dell’autenticità dell’invenzione di Larth Marcinna viene esibita questa deduzione logica: sarebbe ragionevole escludere l’origine romana del nome “Marciana”; perciò resta in piedi soltanto l’ipotesi dell’origine etrusca col ricorso al re eponimo.

Ma perché si esclude l’origine romana del nome “Marciana”, che pure ha un suffisso aggettivante tipicamente latino? La risposta è che non c’è “traccia nella storiografia esistente” di Romani arrivati nelle due Marciane. E questo è vero: per quanto si vada a sfogliare nelle cronache dell’Elba di ventidue secoli fa, non si riesce a trovare nemmeno un trafiletto che accenni ai Romani.

Ma - come osserva talora anche Zecchini - sulla base di un “argumentum e silentio” non si può dimostrare niente. Chi ha informazioni, anche sommarie, sulla storiografia antica, sa bene quanti luoghi, persone, fatti e documenti siano stati tralasciati dagli antichi storici. Alcuni testi sono mutili: di Tito Livio, citato più volte, restano 35 libri su 142. Molte opere sono andate perdute.

Inoltre, se il toponimo Marciana risale a re Marcinna, da dove deriva l’identico toponimo Marciana nel comune di Càscina in provincia di Pisa ? Anche là un re Marcinna? 

MONTE CAMPANA

Suggestivo lo scoop sulle necropoli nascoste tra il monte Catino e il monte Capanne, o meglio - come il libro puntualizza - il monte Campana. È fondamentale il nome “Campana”, perché contiene “il significato recondito di santuario della Grande Dea” (sic).

Dunque Capanne da Campana. E Campana dal santuario. E chi l’avrebbe mai detto?

Ci viene anche spiegato che Catino non ha affinità con la prosaica catinella, a cui penseremmo noi profani. È un “teonimo”: deriva dalla divinità etrusca Cath-Catha, della quale i nostri avi si sono tramandati il nome - a loro insaputa - attraverso più di cento generazioni.

Dal fascino di questi mirabolanti misteri è rimasto “contagiato” il sindaco Ciumei: nel libro racconta che - da quando ha gli “occhi addestrati” dal prof. Zecchini - trascorre il tempo libero in mezzo a cote, pécite e buscioni del Capanne, per “amarlo di più e proteggerlo”. Non dice come lo protegge.

Nella presentazione il Prianti si commuove pensando alle “fatiche” dell’eroe-sindaco-protettore che vaga per i viottoli del monte Campana santuario della Grande Dea, tra il Bollero e la Galera, tra le Calanche e Serraventosa, affrontando - impavido - aspidi e cinghiali di Erimanto.

Commenta il Prianti: “Ce ne fossero di amministratori così!”. Se ne ricordino gli elettori. 

GLI ARGONAUTI ALL’ELBA

Secondo alcune delle molte (e fra loro discordanti) leggende, Giasone e gli Argonauti nel viaggio di ritorno sbarcarono all’Elba e fondarono Porto Argo (o Argòo). Altre narrazioni ignorano l’Elba.

Zecchini scrive: Porto Argo? sì, ma dove? È convinto che gli scrittori antichi non hanno raccontato bubbole. Ma non sa se porto Argo era alle Ghiaie o a capo Bianco o verso San Giovanni.

Ci racconta anche una sua ricerca: “Mi immersi nelle acque cristalline della secca di Capo Bianco per acquisire in modo autoptico nuovi elementi di valutazione. Non trovai niente”.

Per inciso, si noti la raffinata espressione “in modo autoptico”, che di solito si riferisce a un esame post mortem, ma che qui va intesa nel suo significato etimologico di “vedere con i propri occhi”. Dunque Zecchini - “in modo autoptico” - non trovò un bel niente.

Tuttavia a pag. 43 segnala che proprio là “le antiche mappe pongono Argos p.(ortus) e Argous portus”. Di una di queste preziose mappe Zecchini riproduce anche l’immagine a pagina 41.

Ma di quali “antiche mappe” sta parlando? Leggiamo i titoli, riportati rigorosamente in latino (perché - si sa - il latinorum conferisce sempre grandissima autorevolezza anche alle storielle più illogiche): Summa Italiae descriptio… 1626. Nova et accurata Tusciae antiquae descriptio… 1696.

E così scopriamo che le “antiche mappe” - presentate dallo Zecchini come una documentazione determinante - risalgono al 1626 e al 1696. Confrontiamo queste date con la pagina 40, dove l’impresa degli Argonauti è datata intorno al XIII secolo prima di Cristo. Tra il leggendario viaggio di Giasone e le “antiche mappe” intercorrono quasi trenta secoli. Ripeto: trenta secoli.

Zecchini scrive che il toponimo era tanto stratificato da permanere fin su quelle mappe.

Ma stratificato dove? Nella tradizione di quale popolo? Dei fiorentini mandati da Cosimo?

Quando Zecchini si appella all’autorità delle antiche mappe e sciorina gli altisonanti titoli in latino, ci sta semplicemente raccontando una fiaba. Le due carte geografiche, redatte in epoca poco anteriore alla nostra, sono documenti risibili. Quei cartografi non rappresentavano toponimi stratificati nella cultura popolare: semplicemente avevano letto alcune delle leggende su Giasone.

Un altro dettaglio che suscita il suo entusiasmo è l’ipotesi che nel testo greco di Apollonio ci possa essere uno scambio fra due lettere dell’alfabeto. Perciò la “lezione” corretta non è quella che gli Argonauti abbiano asciugato il loro sudore macchiando di segni scuri i sassi bianchi della spiaggia delle Ghiaie. Zecchini pensa che gli Argonauti si asciugarono con τρύφεα, spugne. Quali spugne? Zecchini crede che siano gli “schiumoli”, cioè i residui della lavorazione del ferro. Nel 2004 è stato pubblicato il quaderno “Materiali per Populonia 3” dell’Università di Siena. Nella parte seconda c’è una ricerca di Alessandro Corretti dal titolo “Per un riesame delle fonti greche e latine sull’isola d’Elba nell’antichità”, che riporta i testi delle fonti greche sugli Argonauti all’Elba. I documenti vengono confrontati tra loro e commentati. A pag. 246 si legge: “per quanto riguarda gli altri realia argonautici visibili all’Elba secondo Apollonio, la loro identificazione appare disperata, essendo il testo qui molto probabilmente corrotto (τεύχεα / τρύχεα / τρύφεα)”. Dunque le lectiones sono tre: la nota 8 (pag.233) spiega che i principali codici riportano τεύχεα (armature), a cui si preferisce però la lectio τρύχεα (stracci, vesti) del codice Soloranus in quanto lectio difficilior.

Sulla base di una glossa di Esichio, Enrico Livrea ha proposto una terza ipotesi: τρύφεα.

Zecchini presenta questa terza lezione come un’ipotesi concepita da lui e avallata dal prof. Riccardo Ambrosini, un autorevole glottologo morto pochi anni fa. Ma in realtà la lezione che Zecchini attribuisce a sé stesso si trovava già nell’edizione curata dal prof. Livrea nel 1973.

Partendo dalla lectio “τρύφεα”, Zecchini ammette di essere tentato di congetturare che i viaggiatori greci o le popolazioni autoctone producessero il ferro con anticipo di secoli rispetto alla datazione corrente dell’età del ferro. Ma pretendere che convinzioni consolidate siano sconvolte sulla base di una semplice ipotesi filologica appare azzardato allo stesso Zecchini, che, senza rinunciarvi, ammette che manca un fondamento archeologico. Ne approfitta per accusare la Soprintendenza: se avesse promosso scavi nell’isola, forse ci sarebbero le prove. Forse.

Non potendo rivoluzionare la cronologia, Zecchini suggerisce almeno di ricercare porto Argo. Ma dove? Proprio dove la sua immersione “autoptica” non aveva prodotto “niente”: tra lo Scoglietto e capo Bianco. Questa volta con l’uso di minisommergibili, laser, telecamere e foto satellitari.

Prima di correre a prendere a nolo satelliti e minisommergibili, forse è opportuna una pausa di riflessione con un preventivo di spesa. E chi dovrebbe pagare il conto?

Non è chiaro quali oggetti (case, dighe, banchine?) Zecchini pensi di trovare nella secca di Capo Bianco dopo trentatre secoli di mareggiate. I risultati della sua “autopsia” non sono promettenti.

Nel testo sugli Argonauti si legge anche un’allusione misteriosa a uno studio sul DNA degli abitanti dell’Elba occidentale, che porterà scompiglio su acquiescenze pluridecennali, perché sarebbero emersi marcatori molto antichi che riconducono all’età del bronzo. Non è chiaro il senso di tutte queste affermazioni. E non riesco a immaginare quale possa essere il nesso con gli Argonauti. Credo che anche l’accenno al DNA rientri nel filone della fanta-archeologia.

Non vorrei apparire prevenuto contro le ricerche degli archeologi, a cui dobbiamo i papiri di Qumran (che hanno profondamente cambiato l’esegesi biblica), i rotoli di Ercolano, le esplorazioni di De Rossi nelle catacombe romane... Mi sento in debito verso l’archeologia per le emozioni provate guardando la porta dei leoni, la “maschera di Agamennone”, le statue della colmata persiana, l’elmo di Pericle a Olimpia, le talatat di Akhenaton a Luxor, gli affreschi di Cnosso, i marmi di lord Elgin, la villa di Adriano, la mummia di Ramses II, il Laocoonte, il vaso François...

Ma non riesco ad appassionarmi alle speculazioni della pura fantasia. 

CATH-CATHA, CATHU-COTHU, COTHU-CUTHU 

Questo titolo non è uno scioglilingua, ma un altro esempio di strabiliante sciiienza zichichiana.

Parlando del Cotone, Zecchini scrive che “secondo l’interpretazione scientificamente più valida, il toponimo [Cotone] deriva dall’etrusco Cothu / Cathu” (pagina 61).

E ci espone addirittura un indizio della scientificità di questo etimo. Scrive testualmente: “si veda la variante Catone in una carta francese della fine del XVIII secolo”.

Questa carta francese gli sembra tanto probante che ne riproduce nel libro un’immagine, in cui si legge il nome Catone insieme con altri toponimi elbani tradotti in francese o variamente storpiati.

Un incompetente come me tende a pensare che il cartografo francese di due secoli fa (presumibilmente digiuno di etruscologia) abbia fatto confusione scambiando Cotone con Catone.

Nossignore. Zecchini segnala la “a” di Catone, perché la trova preziosissima.

E si sa che Zecchini non frigge con l’acqua: il prof. Zichichi di Crozza direbbe che Catone-Cotone da Cathu è sciiienza. Per me resta un mistero che un francese dell’epoca di Napoleone avesse notizie scientifiche sul nome che gli Etruschi davano a uno scoglio dell’Elba venti secoli prima.

Nella stessa pagina Zecchini spiega che il toponimo “Cotone” è un nome prediale: traducendo in parole più semplici, quel luogo prese il nome da una famiglia che vi abitava. L’intuizione è attribuita al prof. Ambrosini, il quale pensava che i membri della famiglia si chiamassero Cathu o Cothu, che fossero i “padroni delle ferriere” tra i boschi marcianesi e che provenissero forse da Populonia.

L’ipotesi del prof. Ambrosini è plausibile, perché molte località di campagna, ancora oggi, sono indicate col nome di chi vi abita. Sarebbe però importante sapere se il glottologo era informato che nell’Elba occidentale e a Capoliveri esistono circa quaranta località che prendono il nome da “cote”. La parola cote (in Corsica “cota”) è di origine latina e significa scoglio, masso, grossa pietra. Esistono Cotaccia, Coticchie, Cote Tonda, Cote Ritta, Cote Rossa, Cote Alta... Alcuni toponimi sono al plurale: Cote piane, Cote nere, Monte di cote (il plurale elbano è “cote”, non “coti”).  

Soprattutto sarebbe importante sapere se il prof. Ambrosini era informato che a Sant’Andrea, pochi chilometri più a ovest del Cotone, esistono le “cote” del Cotoncello. Anche “Cotoncello” è un nome prediale? Anche a Sant’Andrea abitava una famiglia che si chiamava Cathu o Cothu ? Strano.

Tutt’altra origine ha il Cotone di Piombino, del quale si legge in Internet che prese il nome dalla coltivazione della pianta del cotone, introdotta alla periferia di Piombino nei primi anni dell'800.

CHE FINE HA FATTO CATONE?

A pagina 157 - cento pagine dopo - Zecchini torna sull’argomento. Con qualche novità.

Scrive che, per contrastare l’ipotesi che “Cotone” derivi dal latino cautes, “sarebbe sufficiente notare che in latino il sostantivo è femminile e tale quasi sempre rimane in italiano”.

Purtroppo qui il Professore si esprime in modo molto confuso e ambiguo. Non è chiaro quale sostantivo rimanga “quasi sempre” femminile. Forse intendeva dire che un nome femminile in latino resta “quasi sempre” femminile in italiano. Però gli accrescitivi dei nomi femminili spesso cambiano genere: pietrone è un nome maschile che è l’accrescitivo del femminile pietra. Allo stesso modo dal nome femminile cote può derivare l’accrescitivo cotone che è maschile.

Per dimostrare che ha ragione, Zecchini si appella a una regola imprecisata, che avrebbe un’applicazione soltanto tendenziale (“quasi sempre”). Che furbata! È facile farsi ragione così, osservando con nonchalance che “è sufficiente notare che…”.

Anche se all’Elba esistono molte località denominate “cote”, per il Cotone Zecchini ricorre al presunto nome etrusco Cothu / Cuthu. Attenzione alle vocali: a pagina 157, non si parla più di Cothu / Cathu: ora appare un inedito Cuthu, mentre Cathu si dilegua senza lasciare tracce.

Che fine ha fatto Cathu? E la famosa carta geografica francese con Catone?

Non è chiaro se Zecchini sbaglia a pagina 61 oppure se sbaglia a pagina 157. O in entrambe. 

LE ORIGINI DELLA TORRE DELLA MARINA

È pisana la fortezza di Marciana, la chiesa di San Piero, la torre di San Giovanni, il Volterraio e diverse pievi diroccate. Ma Zecchini è sicuro che la Torre della Marina non è pisana: il suo fiuto gli suggerisce che fu costruita intorno al 1560 da Cosimo o dagli Appiani. Secondo il dott. Alessandro Canestrelli, non esistono dati certi per stabilire se fu opera dei Pisani, dei Medici o degli Appiani.

È stata pubblicata dal dott. Umberto Gentini una carta geografica, riprodotta a pagina 130 da Zecchini. Nella carta figurano toponimi come Volterraio, Marciana, torre di Marciana e anche Grassera, paese distrutto dai pirati saraceni nel 1534. Per Capoliveri non c’è il nome, ma il sito è indicato dal disegno di un gruppo di case. Del tutto assente Cosmopoli, costruita nel 1548.

Commenta il dott. Gentini che “la constatazione che nel golfo di Portoferraio non compare alcuna traccia delle fortificazioni medicee, conforta l’ipotesi che la stesura della carta risalga ad un periodo precedente al 1548. Potrebbe essere anche anteriore al 1534, data accertata della distruzione di Grassera da parte dei Saraceni”. Sembra logico concludere che la torre della Marina è anteriore alla costruzione di Cosmopoli e alla distruzione di Grassera. Ma Zecchini obietta che talora i cartografi registravano solo quello che suscitava il loro interesse. Osservazione ineccepibile: se ne dovrebbe dedurre però che quel cartografo provava interesse per le povere rovine di Grassera, mentre considerava le fortezze di Cosmopoli del tutto irrilevanti, al pari di un pollaio o di un caprile: il centro abitato maggiore dell’isola e le sue massicce fortificazioni non meritavano neanche le anonime casette stilizzate con cui è rappresentata Capoliveri.  

Zecchini osserva poi che nella carta manca la torre di San Giovanni in Campo: perciò, se è stata omessa la torre di San Giovanni, non ha senso sorprendersi se manca Cosmopoli. Dunque Zecchini ritiene che la piccola torre di San Giovanni avesse una rilevanza identica a quella di Cosmopoli. Eppure deve essere stato notevole l’impatto emotivo suscitato nell’isola dall’arrivo dell’esercito dei fiorentini e dalla costruzione delle fortezze. Con i suoi discorsi capziosi Zecchini minimizza le prove contrarie alle sue tesi: un atteggiamento disinvolto e poco scientifico.

Segnalo che a pagina 276 del libro - in uno dei “contributi” - le strutture della Torre fino alla copertura a terrazza sono datate agli inizi del 1400. Ma la costituzione della Signoria di Piombino ad opera degli Appiani avvenne nel febbraio 1399. Ha ragione il dott. Canestrelli: non esistono dati certi per stabilire le origini della Torre: non si può escludere nemmeno che la Torre sia pisana.

Zecchini confida sui futuri risultati delle ricerche stratigrafiche disposte dal sindaco Ciumei. Ma è noto che solo in casi eccezionali l’analisi stratigrafica trova elementi per una datazione esatta. 

VENTI ANNI DI SOLITUDINE

Qualche parola sul vezzo del prof. Zecchini di screditare i suoi avversari contestando violazioni della grammatica. Chi non è d’accordo con lui (o col sindaco Ciumei) è un somaro: perciò deve tacere. Zecchini crede di mettere a cuccia il mondo con l’arma atomica della matita rossa e blu.

Proprio come faceva con i bambini della scuola media, il prof. Zecchini ci impartisce la sua lezioncina sull’uso dell’aggettivo dimostrativo “quello” davanti a vocale o “s impura”. E ci spiega che in latino suum è un aggettivo, mentre sum è un verbo. La lezione di grammatica più divertente è quella collegata con la sua prima visita al museo archeologico della Linguella, avvenuta nel 2008, ventitre anni dopo che il museo era stato inaugurato. Ogni anno Zecchini veniva all’Elba, passando col traghetto accanto alla Linguella: vedeva l’edificio del museo, pensava al museo che era lì dentro, ma un risentimento incoercibile gli impediva di visitarlo.

Sicuramente un museo archeologico con reperti elbani suscitava la sua curiosità: ma per venti anni si rintanò nella propria solitudine rancorosa, ignorandolo.

Quando finalmente si decise, la visita durò pochissimi secondi. Ebbe appena il tempo di pagare il biglietto, entrare, leggere le prime didascalie. E patatrac!

“Al Museo della Linguella l’imprevisto ti fulmina appena entri”.

INEBETITO

Che c’era scritto di tanto mostruoso nelle didascalie? Udite, udite! L’aggettivo femminile plurale “fenicie” era scritto - horribile dictu - senza la vocale “i”, contravvenendo alla regola della formazione del plurale dei nomi e aggettivi in -cia e -gia. Tornano in mente alcuni versi dell’Ariosto:

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto

quello infelice, e pur cercando invano

che non vi fosse quel che v’era scritto;

e sempre lo vedea più chiaro e piano:

ed ogni volta in mezzo il petto afflitto

stringersi il cor sentia con fredda mano.

 

Zecchini rimase “inebetito” (pag.237): dietro quella fronte spaziosa le sinapsi inorridirono e si ammutinarono: una radiografia avrebbe scoperto una matassa di fili attorcigliati e fumanti.

Quella casa immantinente in tant’odio gli casca, che senza aspettar… piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore. Dovette uscire immediatamente alla ricerca di una boccata d’aria. Però, come racconta lui stesso, prima ebbe ancora la forza di andare a rintracciare il custode, per farsi rivelare il nome del responsabile di un fatto tanto raccapricciante: invano, perché si scontrò con la più granitica omertà.

Allora inviò un vibrante appello pubblico al sindaco Peria, pretendendo l’aggiunta della “i”.

ABBEVERAMENTI UNIDIREZIONALI

A pag. 231 Zecchini puntualizza che di solito è di manica larga con chi commette qualche errore di grammatica: egli è disposto infatti a concedere - con magnanima generosità - che “non si può pretendere più di tanto da chi ha fondato la propria stratigrafia culturale su abbeveramenti unidirezionali” (capisco che sembra incredibile, ma si esprime proprio così).

Invece in un museo diventa “concentrato, esigente e pignolo” (sic).Questo spiega lo choc dell’inebetimento e la fuga stizzosa. Sono botte agghiaccianti, da cui è arduo riprendersi.

Racconta poi la dolorosa avventura dell’anno successivo, quando “si fece coraggio” (sic) e ritornò al museo della Linguella. Commenta sconsolato: le castronerie sono ancora lì”.

Nonostante la solerte denuncia di Zecchini, il sindaco Peria non aveva inserito la benedetta vocale.

La notizia dell’assenza di quella “i” e della crassa ignoranza di noi elbani ha fatto iI giro del mondo.

[A proposito della regola per la formazione del plurale dei nomi e aggettivi terminanti in –cia e –gia, occorre osservare che il criterio etimologico che Zecchini espone - risalire all’etimo e adeguarsi al latino - è vecchio e desueto: sembra che il professor Zecchini ignori che Bruno Migliorini nel 1949 e Aldo Gabrielli nel 1976 proposero di sostituire il criterio etimologico con la regola che è riportata in tutte le nuove grammatiche e a cui si adeguano i giornalisti e gran parte degli scrittori. In una sessantina di casi l’obsoleto criterio etimologico del prof. Zecchini e la nuova regola producono risultati diversi: si pensi a “provincie” nella Costituzione italiana.]

Nella rivista Milliarium il professor Franco Cambi dell’Università di Siena ha espresso gratitudine e stima a Orlanda Pancrazzi, professoressa dell’Università di Pisa, a cui egli riconosce il merito maggiore nella realizzazione del museo archeologico della Linguella, dove sono esposti anche i reperti rivenuti da lei a San Martino e dal dott. Maggiani a Procchio.

Zecchini non menziona mai la professoressa Pancrazzi (che ha scritto un libro insieme con la dott. Ducci), neppure quando egli riassume i risultati degli scavi da lei condotti nel Castiglione di San Martino con gli studenti dell’Università di Pisa. E non perde occasione per esprimere giudizi negativi sul museo. Ma il fatto che si limiti a poche parole generiche, senza saper articolare una valutazione più analitica, lascia intuire che avrebbe detto molto, se solo avesse trovato qualche appiglio. Quel Museo costituisce un fatto importante per l’Elba (anche se ora avrebbe bisogno di essere dotato di strumentazioni informatiche che nel 1985 non esistevano). Come si spiega l’atteggiamento astioso di Zecchini? Non fu coinvolto nell’organizzazione del museo. E i suoi studi, che definisce fondamentali e basilari, furono ignorati. Perciò ora impugna la matita rossa e blu.

  

LA DEA FULIGGINE

Eppure anche l’italiano del suo libro talvolta è zoppicante. Ecco alcuni esempi:

- a pagina 281 “eponimo” è usato al posto di “etimo”. Eponimo si dice di una divinità, un eroe, un magistrato, da cui qualcosa prende il nome. Invece Strabone, quando fa risalire il nome greco dell’isola alla fuliggine prodotta dalla siderurgia, fornisce una spiegazione etimologica. La fuliggine non è una dea, né un eroe, né un arconte o un console…

- a pagina 274 si legge un periodo lunghissimo, con la sintassi piuttosto incerta.

- quando parla di una nave affondata presso Porto Azzurro, Zecchini scrive che il relitto apparteneva alla società “Rubattino e &”. Tutti i ragionieri sono in grado di spiegare al Professore che la formula “e &” non significa proprio niente. Zecchini doveva scrivere “Rubattino & C.” se voleva esprimere il concetto di “Rubattino e soci” o “Rubattino and Company”. L’errore non è attribuibile al tipografo, perché nel libro è ripetuto quattro volte. L’Autore ignora il significato della cosiddetta “e commerciale” degli inglesi e pensa che sia un simbolo o una sigla per indicare l’esistenza di una società. 

- a pag. 116 si legge: “…quel turismo d’élite di cui molti parlano ma pochissimi vogliono”. La proposizione relativa inizia col complemento di argomento “di cui”, riferito al verbo “parlano”. Ma sùbito dopo troviamo anche il verbo “vogliono”, usato qui in senso transitivo. Perciò Zecchini doveva aggiungere il pronome relativo “che” in funzione di complemento oggetto del verbo “vogliono”: “ma che pochissimi vogliono”. La sua frase assomiglia a uno zeugma, senza esserlo.

Zecchini può consolarsi con Orazio: quandoque bonus dormitat Homerus: di quando in quando, anche ai Geni e agli Sciiienziati càpita di appisolarsi.

PIERINO AL DISTRETTO MILITARE

Una chiave della prosa di Zecchini è l’arguzia. Ho già detto delle freddure contenute nel dialogo con Cosimo dei Medici: freddure che all’autore paiono “da buon fiorentino”. Ora è risaputo che le battute tipiche dei fiorentini sono fulminanti. Ma neppure uno di bocca buona come il suo amico Prianti potrebbe ritenere fulminanti quelle scipite cavate d’ingegno come lo storico latino Mendacius Strafalcionensis (pag. 243), o il tizio che confondeva il genitivo con i genitali (p.259), o il trasferimento degli elbani in Montenegro (p.244). Satura tota nostra est: però, visti gli esiti, non era il caso che Quintiliano se ne vantasse. Di tempo in tempo riaffiora nel libro una comicità bonacciona, sempliciotta e un po’ pecoreccia: plagio assai sbiadito delle sceneggiature dei film del ciclo “Pierino e le soldatesse al distretto militare”. Appartiene a questo filone il compiacimento con cui riferisce i riti apotropaici ai quali ricorre quando a portata di mano non ci sono oggetti di ferro.

Per ironizzare sul waterfront di Peria, mette in risalto la somiglianza con watercloset (pag. 211).

A pagina 251 - pur protestando che rabbrividisce al solo pensiero - va in solluchero quando snocciola il repertorio dei nomi geografici con doppio senso, come Culecchio, Favale, Passera…

Un elzeviro è dedicato al portoferraiese monte delle Poppe, in cui rievoca la prosperosa Poppea.

Un altro elzeviro di quattro pagine (p. 263) affronta l’eccitante disputa se è più appropriato dire caprile o domolìto. Zecchini proclama di detestare “domolito”, neologismo introdotto da alcuni “intellettuali di importazione” (sic!). Preferisce caprile” (forse perché evoca una più autarchica fragranza di stallatico). E conclude irridendo a chi usa domolito: “ma vaffa… ‘n dòmo!”. Se qualcuno non l’avesse capito, le parole dòmo / domolito sono il pernio del brillantissimo calembour.

In un altro dei suoi dialoghi “magistrali”, a pagina 208, Zecchini parla in sogno con Annibale, anzi Hannibal, il quale commisera noi cittadini alle prese con le nostre istituzioni; e dice che le leggi e la democrazia sono “una presa in giro”. Ecco le delicate battute fra i due:

Zecchini:   Molti al posto di presa in giro usano una parola popolare, che si riferisce a un pezzo unico formato da due rotondità. 

Hannibal:  Mehercule !

Zecchini:   Per l’appunto.

La chiusa “per l’appunto” gli serve per sottolineare l’elegante assonanza di Mehercule, che costituisce il vertice dei suoi giochi di parole. Prendiamo atto che lui si diverte così.

IL DERBY  ILVA-AITHALE 

In molti articoli del libro si trovano frecciate contro i “nemici”: le più feroci sono riservate alle Soprintendenze, ai professori universitari di archeologia, al gruppo Aithale.

Nel 2007 si è costituito il gruppo Aithale, che vede la collaborazione della Soprintendenza ai Beni archeologici, delle Università di Siena, Firenze e Pisa, della Scuola Normale Superiore, del Consiglio nazionale delle ricerche. Nel maggio 2014 presso la Scuola Normale, che è una delle istituzioni universitarie più prestigiose del mondo, è stato organizzato un seminario del gruppo Aithale. Quanto sia importante per l’Elba questa iniziativa è stato sottolineato dalla dott. Cecilia Pacini, presidente di Italia Nostra dell’arcipelago. Ma Zecchini non ricorda mai l’esistenza del gruppo Aithale, pur criticando le persone che ne fanno parte. Perfino si arrabatta per dimostrare che il nome “Ilva”, che deriverebbe (forse) dall’etrusco o (forse) da un’altra ignota lingua mediterranea, potrebbe essere (forse) più antico del nome greco. Una bella gara.

LA FOGNA DI CASTRUCCIO CASTRACANI

È noto che gli archeologi “professionisti” si suddividono in due categorie: i professori delle Università e i funzionari del Ministero dei Beni Culturali o degli enti locali (Regioni e Comuni). Ma Zecchini non è un professore universitario: non ha mai ottenuto una cattedra in una Università. E non è un soprintendente, un dirigente del Ministero. Non è neppure un archeologo o un architetto o uno storico dell’arte delle Soprintendenze. E allora chi è? È un libero professionista, un freelance, che Soprintendenze e Università guardano un po’ come un estraneo. Ciò non implica un giudizio di valore. Nella storia dell’archeologia ci sono stati battitori liberi di grandissimo talento e fama: Schliemann scavò a Troia e a Micene e avrebbe scavato anche lo splendido palazzo di Cnosso, se l’acquisto del terreno non fosse fallito per un insignificante dissidio sul prezzo di un uliveto.

La contesa fra Zecchini e l’archeologia ufficiale delle Università e delle Soprintendenze fa venire in mente la Parigi del Secondo Impero, in cui c’era la mostra di pittura dell’Académie des beaux-arts, ma c’era anche la mostra dei refusés, di cui erano protagonisti Claude Monet e i suoi amici, ben consapevoli del proprio valore. Zecchini si sente incompreso e refusé: una vittima dell’archeologia ufficiale. E non nasconde il suo risentimento, convinto di essere migliore degli archeologi delle istituzioni, che definisce spregiativamente “impiegati”: usa il nome “impiegato” come un insulto, un marchio di infamia, rivelando così quale sia la sua stima per la categoria degli impiegati.

Nel clima surreale e arroventato della lotta contro l’archeologia ufficiale non sorprende un commento (ingenuo e, perciò, meno diplomatico) della presentazione: il suo amico Prianti sottolinea compiaciuto che gli attacchi sferzanti di Zecchini sono rivolti contro alcuni “titolati” archeologi. Sembra quasi che l’aver vinto concorsi nelle Soprintendenze o nelle Università costituisca una colpa o un titolo di demerito. Si vuole accreditare l’idea che i professori universitari e i funzionari delle Soprintendenze siano burocrati e passacarte incompetenti. Una polemica assurda in Toscana, dove sono emerse personalità come Antonio Paolucci e Salvatore Settis.

La polemica contro i “titolati” ricorda la volpe che non era riuscita a raggiungere l’uva: nondum matura est. In questo conflitto, in cui Zecchini usa la matita rossa e blu e gli amici fanno il tifo come allo stadio, si sono registrate ripicche clamorose. E anche divertenti.

Anni fa, i giornali toscani uscirono con grandi titoli, che annunciavano che Zecchini aveva scoperto un cunicolo nascosto nel sottosuolo di una piazza di Lucca, attraverso cui le truppe di Castruccio Castracani uscivano segretamente dalla fortezza Augusta. Al Tirreno Zecchini spiegava che uscivano addirittura a cavallo da un cunicolo sotterraneo che, però, rimaneva segreto.

Il Sindaco di Lucca e il Soprintendente vollero andare a vedere di persona.

La Soprintendenza puntualizzò che il cunicolo non era altro che una fogna, costruita di recente. E il sindaco Fazzi - presente nell’area degli scavi mentre i teleschermi trasmettevano in diretta l’esplorazione di un gruppo speleologico - ordinò di ricoprire senza indugio le buche scavate da Zecchini in piazza Grande. Fu un colpo terribile. Ma dopo tanta sofferenza, venne il giorno della vendetta. Dalla Soprintendenza trapelò che era in corso lo scavo di una strada etrusca larghissima, che forse arrivava fino a Spina. Ma ecco sui giornali una lettera in cui si insinuava che l’autostrada etrusca era il greto di un ramo abbandonato del Serchio. La prima firma era del “dott. Zecchini”. Nelle baruffe  dell’archeologia lucchese i pugnali sono molto acuminati.  

Qualcuno troverà la mia risposta troppo lunga e aspra. Però la polemica non sono andato a cercarla io. Tremendamente oltraggiato non è Cosimo, ma l’amministrazione di Giovanni Fratini, additata da Zecchini al pubblico ludibrio per un’opera incomparabilmente più innocua e insignificante rispetto a quelle volute nelle più belle città d’Europa da papi, imperatori, re e sindaci.

Avrei potuto limitarmi a rispondere sull’argomento del fornice: però sarebbe stato un dialogo fra sordi, perché Zecchini - intento a contemplare l’idea trascendente e perfetta dell’eterna Cosmopoli - disdegna i problemi concreti del traffico cittadino. Occorreva inquadrare le sue accuse nella sindrome di Bartali, che deriva da un ego ipertrofico: da un’esasperata sopravvalutazione di sé. Alle sue provocazioni, che vogliono screditare il lavoro dell’Amministrazione di sinistra, bollandoci come barbari, ho dovuto replicare mettendo in risalto le contraddizioni, il pressappochismo e la spericolata disinvoltura di un libro arruffato.                        

Gian Piero Berti

 

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