Stampa questa pagina

Addio, vecchio pontile di Vigneria

Scritto da  Maria Gisella Catuogno Lunedì, 29 Ottobre 2018 10:24

 

Il simbolo si sa ha una forza maggiore delle parole e il pontile di Vigneria, o meglio quel che ne restava – lo scheletro fragile e arrugginito del glorioso manufatto del passato – era il segno tangibile, nella geografia umana e sentimentale della nostra Isola e specialmente di quella del versante orientale, della vocazione mineraria dell’Elba, l’antica Ilva, l’ “inexhaustis Chalybum generosa metallis” di Virgilio, e del sacrificio di generazioni di cavatori e minatori. Attraverso quel pontile, come anche quelli di Capo Pero, Cala Seregola e il Portello, il ferro, estratto, è il caso di dirlo, con sudore e lacrime dagli operai, specialmente prima dell’industrializzazione delle miniere, veniva caricato sui bastimenti e più tardi sulle navi, e da lì prendeva il largo.


Dunque quel pontile, l’unico sopravvissuto, aveva una forte valenza simbolica, storica e affettiva, che sommava alla sua connotazione di reperto di archeologia industriale, da tutelare e proteggere, sottraendolo alla rovina del tempo e dell’incuria umana.


I segnali di malessere erano evidenti, come il rischio di collassare da un momento all’altro. E così è stato: il vento indiavolato di questi giorni, l’alternarsi di scirocco e libeccio, che fanno impazzire il mare, gli hanno inferto il colpo di grazia: prima si è piegato su se stesso e poi ha iniziato ad affondare.


Se ne va con lui un pezzo di memoria collettiva, il segno tangibile di chi eravamo e di chi ha contribuito a farci quel che siamo, nonché l’occasione, vedendolo lungo quel tratto costiero, di parlarne ai bambini, ai ragazzi, alle nuove generazioni insomma, nate e cresciute nell’unica economia dominante oggi, quella del turismo con i suoi annessi e connessi, e che spesso conoscono davvero poco il passato minerario ed estrattivo della nostra Isola. Una perdita culturale, dunque, oltre che affettiva. Perché il progetto del futuro non può prescindere dal recupero del passato e tale recupero può essere anche fonte di nuova economia. Il Parco Minerario fatica a decollare, ad avere visibilità, a divenire strumento, oltre che di patrimonio storico, anche di maggior benessere per quel versante. Come invece accade altrove: per esempio in Alto Adige, per le dismesse miniere di rame di Predoi, e dove l’attenzione è tale che esiste anche un museo provinciale delle miniere; o in Val d’Aosta, per la miniera di Cogne; o in Sardegna, nella provincia di Carbonia-Iglesias, per la miniera di Porto Flavia e tante altre, diventate in un’economia regionale non certo florida, opportunità di un turismo non esclusivamente balneare.


Insomma, ora che possiamo soltanto rimpiangere il familiare profilo di quella vecchia e cara carcassa, il crollo del pontile di Vigneria sia un segnale d’allarme, per evitare altre perdite di quel che resta di un patrimonio già impoverito dalla disattenzione e dall’avidità, e uno sprone ad impegnarci di più per ottenerne la valorizzazione che merita. Lo dobbiamo alle generazioni di cavatori e minatori che hanno consumato la loro migliore gioventù a estrarre ferro, che spesso se ne sono ammalati, ma che dobbiamo ricordare anche in tutta la loro vitalità, fierezza e dignità, come ce li rappresenta magistralmente ne “La società del Garofano Rosso” Luigi Berti, lo scrittore riese che li conosceva bene, così come conosceva bene la condizione esistenziale e la natura isolana:


“Il tempo s’indurisce nelle vene, /s’iscrive nelle rocce del cuore…/ era egli stesso un pezzo minerale della sua isola”.

 

Maria Gisella Catuogno

Vota questo articolo
(0 Voti)