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A Sciambere: La classe delle merde e le cetre appese ai salici

Scritto da  Mercoledì, 31 Luglio 2019 09:59

Non so perché, ma per comporre quella terza media sezione C rigidamente maschile, avevano concentrato il peggio possibile, c'erano elementi che avrebbero conseguito la triennale licenza al sesto anno di arrampicate quotidiane su per le scalette della Misericordia (Salita Napoleone). I "vergini", quelli che provenivano senza una bocciatura dalla prima, erano 5 su 28.
C'era chi si faceva già la barba e chi aveva nascosto un fiasco di vino nel cavo della stufa spenta, e ci faceva merenda con la stiaccia all'ora di ricreazione.
Scherzi pesanti (tipo spintoni a tradimento fuori dal banco con "culata" in terra) non erano all'ordine del giormo ma all'ordine del quarto d'ora, il medio profitto era scarsissimo, le note disciplinari fioccavano, le sospensioni idem, abbondavano le escursioni peripatetiche in classe, pochissimi erano gli insegnanti che riuscivano a stabilire un decente minimo dialogo con quella che fin da subito fu ribattezzata con un francesismo "la classe delle merde".
Una mattina però entrò una nuova insegnante, una giovane donna piccola e apparentemente fragile, che poco si curò del minaccioso brusio che l'accoglieva.
"Leggerò una poesia..." disse e attaccò:
"E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento".
I pitecantropi ai banchi, di fronte a tanta stranezza, abituati a considerare poesia le lagne in rima di Giovanni Pascoli (Giovanni Pascoli Piceno avrebbe detto una consorte rotaryana anni dopo) o i versi burbanzosi e finto-rivoluzionari carducciani, rimasero interdetti di fronte a quella "poesia", che sarebbe stato difficilissimo ripetere "a pappagallo", e l'esile signora in un silenzio assurdo per quel contesto, spiegò riga per riga, raccontando la ferocia nazi-fascista e l'imbarazzo del poeta di produrre bellezza nel bel mezzo della tragedia, che vi si rappresentavano, la stupida inutilità della guerra, e perfino i riferimenti biblici dell'ultima terzina.
Credo che quella mattinata abbia segnato un punto di svolta nella mia giovane vita, mi innamorai contemporaneamente della professoressa di Italiano e delle parole, e forse se "lavorando parole", per mestiere o diletto ho passato la vita, "alle fronde dei salici" è stata decisiva.
Ultimamente qualcuno dei miei 17 affezionati lettori mi ha rimproverato una supposta "tirchiaggine creativa", di non scrivere più frequentemente come qualche anno fa.
Ora non vorrei apparire irriverente (e presuntuoso) con il parallelo, ma veramente negli ultimi tempi mi sento spiritualmente vicino a Quasimodo, che al contrario di quanto pensa l'elettore medio non è solo il gobbo di Notre Dame (avendolo appreso del romanzo di Hugo o più probabilmente del cartone disneyano).
Il piede sopra il cuore me lo sento io anche se non è un piede straniero bensì del tutto nazionale, anzi arci-italiota.
Ieri proprio su Facebook (che talvolta propone delle schifezze inenarrabili) ho riletto un pensiero del grande Ennio Flaiano, steso molti decenni fa, citato (parzialmente) da un'amica, ma che ricopio e - abbiate pazienza - vi ripropongo nella sua versione integrale:

"Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità.
Il Fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta.
Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista.
Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito.
Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui.
Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere.
Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri.
Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre"

Qualcuno si sente fischiare le orecchie?

Mi tocca vivere questo ultimo scorcio tra gente così amorale da aver inventato il termine dispregiativo "buonista", come se il suo logico contrario "cattivista" potesse rappresentare un valore. Chissà perché mi viene in mente il "culturame" di altri tempi.

Non sono religioso né credente, ma non ho mai discusso la storicità di Yeshu'a di Nazaret, e credo che oggi avrebbe un bel po' da frustare i mercanti nei templi della cosiddetta democrazia.

Non mi resta che sperare nella resistenza di fronte all'imperversare dell'egoismo, dell'individualismo, del campanilismo, della paura del prossimo, del miserabile odiare, dell'ode dell'incompetenza contrabbandata per democrazia diretta.

Servirà una nuova Resistenza con la "R" maiuscola, per spazzare via tutto questo ciarpame, serviranno nuove generazioni, con la forza della fratellanza necessaria per cambiare il mondo, per interrompere la sua folle corsa verso l'autodistruzione.

Ho cinque nipoti che stanno crescendo liberi e forti, sono loro che, nonostante la melma in cui siamo immersi, mi fanno (certo, per un per un futuro "delegato", non direttamente mio) pensare positivamente o almeno speranzosamente.

Scusate se vi ho annoiato

Dunque ... dove eravamo? Ah:

"E come potevamo noi cantare..."

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