Stampa questa pagina

Il Financial Times e l'Elba appetibile

Scritto da  Luigi Totaro Martedì, 29 Luglio 2014 09:16

cala-delle-alghe 620Luigi Totaro: la necessità di una visione globale e sociale dei mercati

L’articolo che “Elbareport” ha pubblicato nei giorni scorsi sulle valutazioni espresse da un giornalista del “Financial Times” riguardo all’Elba è sicuramente gratificante: sapere che un autorevole ospite inglese trova la nostra isola ancora “integra”, ricca di qualità, incantevole ci conforta nel nostro affetto per questa terra scelta da tempo immemore come “casa”, e ricaccia indietro la tentazione che ogni tanto ci coglie di abbandonarci al nostalgico ricordo di quando ancora si poteva nuotare fra i saraghi a Bagnaia, o vedere ostriche e aragoste a Fonza; perché quell’Elba era assai più povera di risorse, di cultura, di capacità progettuale, e se le “piane” dietro le spiagge erano ancora coltivate a grano fino alle vigne delle colline, non dobbiamo dimenticare che chi coltivava grano e vigne faceva una vita che nessuno degli ammiratori di oggi sarebbe stato disposto a condividere. Si poteva fare meglio, certo; ma le sacche di degrado e gli assalti al paesaggio sono stati contenuti e comunque osteggiati con forza. Si poteva fare di più, ma siamo qui, e si può sempre fare.

Detto questo, l’articolo del “Financial Times” invita anche a qualche altra considerazione. Il giornalista Fred Redwood “ospite della Knight Frank, la principale società mondiale di consulenza immobiliare da oltre 100 anni” si rivolge prima di tutto ai suoi connazionali, invitandoli a fare shopping –che, ricordiamolo. è diverso da fare “investimenti”- in questo luogo ameno dove si possono fare ottimi affari; e correda il suo scritto illustrando le varie occasioni, con tanto di descrizioni particolari, fotografie, indicazioni topografiche. Perfetto, da suo punto di vista. Ma su questo conviene riflettere un po’.

La “convenienza” delle proposte e delle offerte –essenzialmente i bassi costi degli immobili “disponibili”- deriva immediatamente dalla situazione economica generale, dalla crisi che stiamo attraversando e che sta impoverendo i venditori, costringendoli ad abbassare i prezzi dei loro beni. Insomma, quel che succede da noi è analogo a quanto succede in altre parti dell’Europa dell’Euro; la deflazione dei redditi e delle attività mobiliari e immobiliari è legata alla crisi del 2008 che ha messo a rischio di fallimento banche e stati nazionali: le banche, per la riduzione di valore degli attivi (prestiti alle imprese e mutui immobiliari, e investimenti in prodotti finanziari -pubblici, i CCT; e privati, i derivati-; gli Stati, per la difficoltà a fare fronte al rimborso dei prestiti contratti (debito pubblico) e al costo accresciuto per trovare finanziatori/prestatori (spread).

Il peso del “riequilibrio” si è scaricato sui costi (salari, pensioni e welfare) in presenza di una moneta sovranazionale che non può essere svalutata unilateralmente. Minore spesa pubblica e minori salari hanno compresso i consumi riducendo la domanda, compresa quella per immobili; e accrescendo il ricorso a vendite di patrimonio per fare fronte alle spese correnti, con conseguente riduzione del loro valore, come si diceva. L’effetto aggregato di questo meccanismo è la diminuzione del tassi di crescita del PIL (e anche del suo valore assoluto). A esempio, al luglio 2014, ogni italiano ha un reddito pro capite inferiore di circa il 10% rispetto al 2008, l’anno della crisi.

Questa sequenza è stata particolarmente forte in Irlanda, Spagna e Grecia, paesi nei quali il crollo dei prezzi delle case è stato più vistoso di quello italiano che è stato di circa il 17/20% tra il 2007 e il secondo trimestre del 2014: in generale sono caduti di più i prezzi di uffici e seconde case -nelle zone turistiche, anche se con alcune differenze-; e fra le case di più i prezzi di ville unifamiliari che non quelli degli appartamenti. In Spagna e Grecia gli immobili confiscati dalle banche ai mutuatari insolventi sono stati molti di più che in Italia portando a una vendita in blocco di molte proprietà anche attraverso veicoli finanziari, poi collocati presso investitori istituzionali spesso esteri –segnatamente inglesi-, secondo il modello dei subprime americani.

In Italia il fenomeno è più “privato”. In tutti i casi i prezzi scendono, e “nascono” gli “affari”. Quando i prezzi scendono qualcuno compra: all’ingrosso, come nei casi spagnolo e greco, nei quali prevalgono veicoli finanziari appositamente creati; oppure al dettaglio, come accade finora in Italia, ed è questo il caso richiamato dal “Financial Times” e citato da “Elbareport”.

Compra chi è più ricco, ovvero chi proviene da paesi più ricchi –o in ogni caso con la possibilità di rispondere alla deflazione con una politica di inflazione grazie all’indipendenza monetaria-; o che appartiene a élites di reddito globali, come è il caso dei russi di Forte dei Marmi o dei ceti benestanti inglesi o tedeschi.

Ma va sottolineato che questo dinamismo del mercato immobiliare ha un effetto positivo in termini di reddito locale e di occupazione veramente minimo: infatti pochi ricchi consumano meno di molti di ceto medio, e gli introiti di chi vende vengono usati come piccole rendite per sopravvivere in presenza di estesa disoccupazione. Il deserto attuale della Versilia venduta a pochi oligarchi è davanti agli occhi di tutti.

Una possibile alternativa ai processi di impoverimento ora descritti è la valorizzazione degli attivi immobiliari privati e pubblici associandola alla valorizzazione delle risorse naturali -date, come nel caso dell’Elba- dei territori. Invece di svendere, è più conveniente accrescere il valore del patrimonio attraverso il recupero degli immobili, la loro messa in efficienza d’uso sia in termini energetici che di “collegamenti” (fisici e di “informazione”: Elba 2.0), ovvero –ci si lasci un moto di utopia, tanto per non perdere il “vizio”- investendo tutti in un grande progetto immobiliare collettivo a carattere territoriale, che non esclude la partecipazione di risorse esterne al territorio, ma in quadro di patti precisi e vincolanti.

Allora, se sono inglesi –o altro- va bene lo stesso; purché gli elbani “siano l’Elba”, purché i loro amministratori si rendano conto che questo –ben oltre l’ordinaria amministrazione e gli interessi delle “botteghine” locali- è il livello della politica del quale si devono occupare in una società globalizzata; purché chi possiede dei beni non si metta da solo a competere sul terreno del “mercato” con interlocutori, la cui potenza economica non consente competizione.

Luigi Totaro

Vota questo articolo
(0 Voti)

1 commento