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Elfio Mazzarri,militare italiano internato per aver detto NO all'adesione al nazifascismo

Scritto da  Manuela Mazzarri Domenica, 25 Aprile 2021 01:02

 

In occasione della ricorrenza della Festa della Liberazione, vorrei ricordare quei militari italiani, oltre 600.00, che all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 dissero “NO” al regime nazifascista, rifiutandosi sia di continuare a combattere con l’esercito tedesco sia di aderire alla Repubblica sociale di Salò.


Un’importante pagina di storia italiana per molti decenni poco conosciuta, ma che, grazie alle testimonianze dei reduci e alle ricerche degli storici, è ormai annoverata, a giusto titolo, nella Resistenza.


Questi soldati sono conosciuti con la sigla I.M.I. che significa “Internati militari italiani”: dopo l’8 settembre, non fu riconosciuta loro la qualifica di “prigionieri di guerra”, così da non poter usufruire della tutela della Convenzione di Ginevra e dell’assistenza della Croce rossa internazionale e, addirittura, dall’autunno del 1944, essi furono smilitarizzati e considerati lavoratori civili “liberi”, ma di fatto erano lavoratori forzati, ridotti in schiavitù.


Tra questi giovani militari, ci fu anche mio padre, Elfio Mazzarri, nato a Poggio nel 1921 e cresciuto a Procchio. Nel febbraio del 1941, appena compiuti venti anni, fu arruolato nella Regia Marina e, dopo l’addestramento alla Scuola Cannonieri di Santa Maria a La Spezia, cominciò la sua peregrinazione di guerra in giro per il Mediterraneo: Palermo, Brindisi, Rodi, Creta dove lo colse, insieme ai suoi compagni, la fatidica giornata dell’8 settembre 1943.


I tedeschi, radunati gli ex alleati, sotto la minaccia delle armi, chiesero loro chi volesse arruolarsi nell’esercito germanico: “O collaborare o darsi prigionieri”, raccontava il babbo, ma solo un soldato della sua batteria accettò. Gli altri furono imbarcati per Atene e poi deportati, sui carri bestiame piombati, in Germania. Un viaggio durato venti giorni, in condizioni disumane: “ A Vienna si sperava di venire in giù – continuava il babbo nel suo racconto -, ma il treno prese in su, ci si trovò a Berlino, c’era un campo di concentramento enorme, s’era migliaia e migliaia”.


Il campo di concentramento era lo Stalag IIID da dove i prigionieri venivano smistati in sottocampi sparsi per la città e da qui raggiungevano il posto di lavoro coatto che, nel caso di mio padre, era la Krone Berlin, una fabbrica di proiettili.


Le giornate al campo trascorrevano lente, senza notizie da casa, alle prese con la fame (“Si mangiava della roba che non si sapeva cos’era”; “Mi sono trovato a rubare, a azzardare a rubare le patate in fabbrica che se mi acchiappavano mi fucilavano”; “La fame avanzava, s’aveva un pezzo di pane da dividere in sette”), il freddo, le botte, le malattie, il duro lavoro, anche notturno, sotto incessanti bombardamenti (durante uno dei quali il babbo fu gravemente ferito ad un occhio e fu operato nel campo da due militari medici, uno francese ed uno sloveno, anch’essi prigionieri), ma sempre con la speranza di tornare a casa e, soprattutto, animati da quel “NO” ripetuto ogni giorno ai tedeschi che chiedevano agli internati se volessero collaborare.


Finalmente, il 27 aprile 1945, la liberazione da parte dell’esercito sovietico, il lungo e faticoso viaggio di rientro a casa nel luglio dello stesso anno, il ritorno ad una vita normale: “E’ come rinascere”, diceva il babbo.


Per anni, non solo lui, ma anche tanti suoi compagni hanno parlato poco della prigionia, sia perché pensavano di non essere creduti (“Ho paura che la gente non ci creda a quello che ho passato”) , sia perché si vergognavano di ciò che avevano subito, loro che avevano donato cinque anni della loro gioventù ad un regime illusorio, devastante, liberticida, totalitario. Molti volevano soltanto dimenticare.


Un tardivo riconoscimento da parte del Governo italiano è giunto soltanto nel 2006 con la concessione della Medaglia d’onore, mentre le richieste di indennizzo per il lavoro forzato, inoltrate al Governo della Repubblica Federale di Germania non sono state accolte, fatta eccezione per quegli I.m.i. che furono detenuti in campi di sterminio.


E’ fondamentale, quindi, ricordare, non solo in questo giorno, l’importanza del comportamento di questi giovani soldati che con il loro continuo rifiuto al regime nazifascista e alla guerra, contribuirono a far nascere, crescere e rafforzare i valori di democrazia e le libertà su cui si fonda la nostra Costituzione.


Una forma di opposizione disarmata, definita dagli storici “resistenza passiva”.


Per chi volesse approfondire l’argomento I.M.I., segnalo il libro “Gli ultimi testimoni. Storie e ricordi degli internati militari nei lager nazisti”, a cura di Annarosa Bartolini e Emanuela Malvezzi dell’Archivio Storico del Comune di Piombino, con l’introduzione di Paolo Pezzino, edizioni Polistampa; la pagina Facebook IMI, Internati militari italiani; il museo “Vite di Imi” presso l’A.n.r.p. (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia , dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari), a Roma, via Labicana 15/A.


Manuela Mazzarri

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