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Un'altra Elba argentina: la storia di Elba Susana

Scritto da  Riccardo Venturi Venerdì, 28 Febbraio 2025 09:27

Qualche mese fa, tutte e tutti lo ricorderanno, Elbareport ha pubblicato la storia della maestra del Che Guevara, Elba Rossi Oviedo Zelaya, scritta da Alvaro Claudi e Umberto Mazzantini e pubblicata il 5 luglio 2024. Una storia nella quale s’ipotizzava che l’insegnante, per via del nome che portava, potesse avere avuto origini elbane, e che è stata poi ripresa e presentata dalla trasmissione di Rai Radio 2 “Caterpillar”. Come non di rado mi accade, già allora qualcosa aveva cominciato a frullarmi in testa, e qualcosa che aveva sempre a che fare con l’Argentina. Dev’essere una specie di destino di famiglia: non soltanto ho avuto due zii emigrati in Argentina, la cui storia ho per sommi capi raccontato, ma la moglie di mio fratello maggiore, vale a dire mia cognata (sono sempre stato una catastrofe con le parentele, ma fin qui ci arrivo…), è argentina nativa di Buenos Aires, barrio Palermo (ebbene sì: a Buenos Aires c’è un vasto quartiere che si chiama “Palermo”). Quel rifrullo in testa, alla fine, s’è manifestato nella storia che segue, che è storia di un’altra Elba argentina. Non era un’insegnante, però, ma una bambina di quattro anni. Si chiamava Elba Susana Del Valle Guerrero. Occorre tornare indietro al 1969.

 

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Il mese di maggio del 1969 vide, in Argentina, una serie ininterrotta di massacri. A fronte di estese rivolte antigovernative (il cosiddetto Cordobazo) con scontri violentissimi e barricate per le strade, poliziotti e soldati reagirono in modo che definire selvaggio è un eufemismo. Il 15 maggio, a Corrientes, la polizia fucilò letteralmente in strada uno studente di 22 anni, Juan José Cabral; l'identica sorte toccata due giorni dopo, il 17 maggio a Rosario, ad un altro studente anch'egli di 22 anni, Adolfo Ramón Bello, durante una manifestazione di protesta proprio per l'assassinio di Cabral. Esecuzioni sommarie al muro, per la strada. Il 21 maggio, sempre a Rosario, toccò a uno studente di soli 15 anni, Luis Norberto Blanco. Colpito da una raffica, il ragazzo fu soccorso, agonizzante, dal medico Aníbal Reinaldo, che fu manganellato quasi a morte dai poliziotti. Nei giorni successivi, a Córdoba e Rosario, furono abbattuti per strada: Daniel Laoz, di 27 anni, travolto da un veicolo militare (esattamente come Giovanni Ardizzone -Milano, 1962- e Giannino Zibecchi -Milano, 1975- in Italia); la studentessa Nilda Vilma Martínez, di 21 anni, centrata da pochi metri da un lacrimogeno in pieno volto; Máximo Menna, di 25 anni, ucciso a fucilate; un giovane di 32 anni di cognome Castillo (il nome non è noto), pure fucilato. Oltre a questi, ci furono altri dieci morti e centinaia di feriti. 

 

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Il generale presidente, Juan Carlos Onganía (nell’immagine sopra), durò ancora un anno sebbene il Cordobazo del 1969 (così chiamato perché gli scontri e le rivolte erano iniziate agli inizi di maggio nella città di Córdoba) sia stato per lui l’inizio della fine. L’8 giugno 1970 fu deposto da altri tre generali. Le rivolte, intanto, erano proseguite in tutto il paese, estendendosi ad altre province e ai centri minori, e saldandosi con le rivendicazioni sociali degli strati proletari della popolazione. Il 1° luglio 1969, nella cittadina di Tafí Viejo, nella provincia di Tucumán, era stato organizzato uno sciopero di ferrovieri, con una manifestazione che fu immediatamente attaccata da un reparto della Polizia Ferroviaria argentina; praticamente, come se uno sciopero di ferrovieri italiani fosse stato assaltato dalla Polfer. Durante gli scontri, accadde uno di quei tipici effetti collaterali, con l'ancor più tipica pallottola vagante; naturalmente, le pallottole che fin da maggio avevano fatto decine di morti (quasi sempre giovanissimi) non erano affatto “vaganti”. Anzi, avevano una direzione ben precisa. Sui muri delle città argentine si leggevano scritte, tracciate con la vernice: “Soldado, no tires a tus hermanos”, Soldato, non sparare ai tuoi fratelli; e accadde infatti che i soldados non spararono ai loro fratelli, ma a una loro sorellina.

 

Elba Susana Del Valle Guerrero era una bambina di quattro anni che stava giocando nel portico di casa sua, la quale si trovava disgraziatamente a breve distanza dagli scontri tra gli scioperanti e la polizia ferroviaria. Era il 1° luglio 1969, un martedì, giorno dedicato a un oscuro e dimenticato santo eremita francese del XI secolo, San Teobaldo di Provins. Chissà a che cosa stava giocando, e con che cosa; forse con niente, come fanno i bambini. Correndo dietro a un gatto o a un cagnolino, con una bambola, oppure semplicemente saltellando. Forse sarà stata pure attratta dagli strani rumori vicini, rumori mai sentiti dai suoi orecchi di bambina; persone che urlavano, sirene, e spari. All’improvviso, non ci fu più niente. Elba Susana fu abbattuta da un proiettile in dotazione alla polizia, che la centrò in pieno ventre uscendole dalla spalla. Fu, secondo le cronache, soccorsa dalla mamma e da un fratellino più grande, che si trovavano in casa; si accorsero subito, disperati, che non c’era più niente da fare. Mentre la bambina Elba Susana giaceva nel suo sangue, i poliziotti continuavano a sparare su un gruppo di ferrovieri in sciopero, senza minimamente curarsi di ciò che era successo. Un medico, tra mille difficoltà, arrivò soltanto più tardi solo per constatare la morte della piccola.

 

In quel preciso momento, un poeta si trovava in carcere, in una città non vicina a Tafí Viejo. La città si chiama Ramallo, nel nord della provincia di Buenos Aires; il poeta, Leonardo Castillo, vi era nato il 21 luglio del 1931. In carcere per un libro di poesie e prose poetiche, il suo primo e da poco pubblicato, intitolato “La magía más vieja”, La magia più antica; tale magia è la Libertà. Per il suo contenuto, il libro non era sfuggito agli “attenti lettori” della dittatura di Onganía, che rinchiusero immediatamente in galera il suo autore. Fortuna volle che vi rimase soltanto nove giorni, durante i quali avvenne l’abbattimento di Elba Susana. Il giorno dopo, 2 luglio, in cella a Ramallo fu portata a Leonardo Castillo una copia del giornale La Nación, che riportava la notizia dell’uccisione “casuale” della bambina; il giorno ancora dopo, il 3 luglio, Castillo scrisse una poesia in prosa, o recitativo, o lo si chiami come più piace, intitolato semplicemente: Ha muerto Elba Susana. Per vie traverse, tale testo mi è arrivato soltanto moltissimi anni dopo, nel 2015, e ne ho fatto una traduzione integrale:

 

“A Tafí Viejo è morta Elba Susana, dice il giornale di ieri, 2 luglio 1969.
È morta durante gli scontri tra gli scioperanti e la Polfer. Ieri, quando è arrivata la notizia del suo ferimento, aveva 3 anni. Suo padre ha detto che la polizia ha sparato su un gruppo di operai. Secondo le notizie di ieri, Elba Susana stava giocando nel portico di casa sua quando una pallottola le ha fracassato il pancino uscendole dalla spalla; la ferita, dicono le notizie, aveva quattro centimetri di diametro. Una rosa che avrei voluto baciare. Su, ditemi ora, ditemelo; vi invito a parlare, signori. Voglio sentirvi dire che è stata una tragedia, che è stato un deprecabile incidente, che la vita continua. La proprietà privata continua a essere al riparo e protetta; piena di serpenti e di veleno.

Chi mi dà un gelsomino per Elba Susana del Valle? Darei una carrettata di caramelle e tutti i miei versi per Elba. Dite di no? Che questa carrettata e tutte le mie poesie non serviranno per pagare il riscatto? E che devo fare per far tornare Elba in vita e perché mi insegni a contare fino a dieci? E che ci faccio allora con le mie poesie? Me le mangio e volo, volo fin dove Elba Susana ha lasciato la sua pozza di sangue?

Sì, volo. Però, prima, vorrei sapere dove giocano i figli dei generali, dei latifondisti, di quelli che affollano la borsa valori. Per ora mi tengo il mio pianto. Vorrei sapere se questi bambini sono diversi da Elba Susana. Vorrei sapere se hanno la coda, se dormono in pigiamini di amianto. Oggi, 3 luglio, il giornale dice che aveva 4 anni; ieri diceva che ne aveva tre. La hanno invecchiata di un anno in un giorno, e con questo la rosa di sangue nel suo pancino è fiorita due volte. E pure io dico che in un giorno siamo invecchiati di un anno; quindi...è ora di aggiustare i conti. Dico questo, mentre alle quattro del pomeriggio senti come aumenta il baccano nel cortile della scuola, qui, a Ramallo.”

 

Saltiamo a due anni dopo, nel 1971. Non più in Argentina, ma nel confinante Cile, dove da circa un anno è al potere il governo di Unidad Popular del presidente Salvador Allende Gossens. In quel Cile non solo di Allende, ma anche di Víctor Jara, dei Quilapayún e della Peña de los Parra, e dove la musica e la Nueva Canción Chilena giocavano un ruolo fondamentale, operava, già da molti anni, un cantautore comunista quarantenne, Rolando Alarcón. Era nato il 5 agosto 1929 a Sewell, una cittadina mineraria nel Cile centrale, situata a quasi tremila metri d’altitudine. Su Rolando Alarcón sarebbe necessario dire molte cose, e non ce n’è probabilmente lo spazio; sebbene non sia mai stato noto in Italia ed altrove fuori dal Cile, non esito a definirlo tra i più grandi artisti che quel paese abbia visto. Il fatto è che Rolando Alarcón, oltre che comunista, era anche omosessuale, e per nulla dichiarato. Dovette, anzi, nascondersi per tutta la sua vita, perché l’omosessualità non era “ben vista” neppure a sinistra. Per tutta la sua vita, che fu breve: il 4 febbraio 1973, all’età di 43 anni, fu colpito da un’ulcera fulminante che gli provocò un’emorragia interna; fu portato ad una clinica, dove morì per un arresto cardiaco durante l’operazione. Ai suoi funerali fu presente anche Salvador Allende, che pochi mesi dopo sarebbe stato deposto e ucciso durante il golpe militare dell’11 settembre.

 

Tra il cileno Alarcón e il poeta argentino Castillo era nata un’amicizia; copie della raccolta poetica La magía más vieja erano passate nel Cile popolare, integrate anche con il testo sull’assassinio della piccola Elba Susana Del Valle Guerrero. Ma ve lo immaginate un nome del genere per una bambina di tre o quattro anni, un nome da Grande di Spagna introdotto da quello di un’isoletta dall’altra parte del mondo? Ecco, nel 1971, Rolando Alarcón decise di scrivere un intero album di canzoni tratte dalle poesie di Leonardo Castillo scritte in galera due anni prima. Si intitola, appunto: Canciones desde una prisión, Canzoni da una prigione. Tra queste, la canzone su Elba Susana, che però è abbreviata rispetto alla poesia. Accompagnato da un complesso, il “Conjunto Huiracocha”, Alarcón qui suona e basta, mentre il testo viene recitato da Enrique Norambuena, che non era né un cantante, né un attore, ma un medico psichiatra, una sorta di Basaglia cileno che si occupava del trattamento e del reinserimento dei malati mentali nella società.

 

La storia potrebbe, forse, finire qui. Sto cercando da anni ed anni se esista una foto di Elba Susana Del Valle Guerrero, o anche un semplice ritratto a disegno; niente da fare. Troppo piccina per avere delle foto o un ritratto, forse; troppo lontana, troppo povera. Dopo il suo assassinio, ci fu chi dichiarò d’aver visto qualcosa, o meglio: qualcuno: in particolare, un agente che, durante gli scontri, non aveva mirato soltanto agli scioperanti, ma addirittura a un treno passeggeri che stava passando (gli scontri stavano avvenendo in prossimità delle case di lavoratori in prossimità della ferrovia). Sarebbe stato uno di quei “tiri al treno” che avrebbe colpito la bambina. L’agente fu descritto dal testimone, ma, naturalmente, non si seppe mai chi fosse di preciso. Gli scontri, acuiti ancor più dal tremendo episodio, proseguirono fino a notte, con il blocco totale della ferrovia e gli scioperanti che incendiavano ogni camionetta e mezzo militare che capitava a tiro. Scontri che proseguirono il giorno dopo, anche mentre si svolgeva in fretta e furia il funerale di Elba Susana, durante il quale le accuse più violente alla polizia e alla direzione ferroviaria furono lanciate dal celebrante, monsignor David Dip, che parlò di un vero e proprio “punto di rottura”. La brevissima vita di Elba Susana, terminata per mano poliziotta, non ha avuto quindi immagini; o, se le ha, saranno in qualche cassetto della sua famiglia, ingiallite. Bambina per sempre.

 

Però, per me, la storia non finisce affatto qui. Ovviamente, ha che fare col nome della bambina uccisa quel pomeriggio di luglio a Tafí Viejo, provincia di Tucumán, Argentina; vale a dire, appunto, che una bimba argentina di 4 anni si chiamasse "Elba". Come la maestra del Che Guevara del quale s’è tanto parlato, e che è approdata persino alla radio nazionale italiana. All'isola d'Elba, come si sa, chiamarsi "Elba", come la stessa isola, oppure "Elbano" (si veda, ad esempio, il patriota Elbano Gasperi), è stato in passato piuttosto comune; probabilmente, oggi nessun genitore chiamerebbe così la propria figlia in tempi di “Jennifer”, “Gaia” o altri nomi alla moda. Però m’è preso l’uzzolo di controllare qualche statistica, facilmente reperibile in Rete, e mi sono accorto che, in Italia, perlomeno fino a pochi anni fa (le statistiche da me consultate si riferiscono al 2018) esistevano ancora ben centosessantadue persone di sesso femmile chiamate “Elba”, concentrate all’Isola d’Elba o comunque prevalentemente in Toscana. Possibile che si tratti in stragrande maggioranza di persone anziane, o comunque non di giovani o giovanissime.

 

Così come la maestra del Che Guevara, la piccola argentina Elba Susana, nata nel 1965, poteva avere avuto una qualche antenata di origine elbana? Non lo si può sapere, nessuno può formulare ipotesi. E, allora, in un autentico impeto statistico, sono andato a controllare dei dati sulla diffusione del nome di persona femminile “Elba” nella Repubblica Argentina, dati riferiti anch’essi a pochi anni fa. Ne sono venuti fuori risultati sorprendenti: in Argentina, nel 2016, esistevano ottantacinquemila donne (ragazze, bambine) chiamate “Elba”. Le medesime statistiche, però, pur menzionando l’Isola d’Elba e la sua diffusione “identitaria” ancor prima del Risorgimento, ed in tutte le sue varianti anche maschili (“Ilva”, “Elbano”, “Ilvia”, “Ilvo”, persino “Milva”, la famosa cantante il cui nome completo era Maria Ilva Biolcati), specificano correttamente che, nei paesi latinoamericani, spesso “Elba” è percepito come una variante di “Alba”. Come dire: le Elbas sudamericane, pur non escludendo qualche caso di diffusione per tramite di antenati emigrati dall’Isola d’Elba in Sudamerica (e ce ne sono stati tanti, come il musicista e educatore venezuelano José Antonio Abreu Anselmi, il cui nonno materno, Antonio Anselmi Berti, era emigrato nel 1897 da Marciana, dove era direttore della banda musicale del paese), possono in stragrande maggioranza non avere assolutamente nulla a che fare con la ferrigna isola nel Mar Tirreno.

 

Di Elbani in Argentina, pure ce ne sono stati chissà quanti. Tocca nominare, ad esempio, un altro musicista: il ferajese “DOC” Alfredo Bigeschi, nato nel 1908 ed emigrato con tutta la sua famiglia nel 1920, che in Argentina fu popolarissimo autore di tanghi e anche un giornalista. Tornò brevemente all’Elba solo nel 1960, quando fu inviato in Italia dal quotidiano “Crítica” per coprire le Olimpiadi di Roma).

 

Però, è inutile fare; e, con il sottoscritto, è inutile il doppio. La Storia, ad un certo punto, cede sempre il passo all’immaginazione. Qualche mese fa mi sono immaginato anch’io che la maestra del Che Guevara venisse davvero da un paese lontanissimo, lontano come Margidore (autocitazione, ebbene sì). Come logica conseguenza, terminerò immaginandomi che anche la piccola Elba Susana sia stata la discendente di un elbano o di un’elbana, andata a restare bambina per sempre, ammazzata da mano militare mentre giocava in un portico vicino a una ferrovia. Un nome, quale che ne sia la vera origine, evoca necessariamente qualcosa ed instilla da un lato il desiderio di conoscenza e, dall’altro, quello di immaginare; ed immaginare è, quasi sempre, un tentativo di fermare le pompe idrovore del tempo (che, a differenza di quelle del Carburo, funzionano perfettamente).

 

Così, vorrei dedicare alla memoria di Elba Susana, vittima quasi sessant’anni fa del terrorismo di stato, di generali, di poliziotti e di quant’altro, un’immagine dell’Isola di cui, forse per un caso, recava il nome. Un puro caso che fa venire un po’ in mente un grande argentino, Jorge Luis Borges; un nome che è l’Aleph. Un nome come Pierre Ménard, che voleva scrivere il Don Chisciotte; e io vorrei riscrivere, dall’inizio, la storia di Elba Susana Guerrero Del Valle, ma con una fine differente. Le dono quindi l’Isola del suo nome. Il 1° luglio 1969 io ero all’Elba, e avevo l’età di anni sei. Forse anche lei è là, e mi piace pensare che non c’è nessuna ferrovia, nessun generale, nessun’arma. Elba Susana sta giocando felice su una spiaggia, lontana dall’orrore, lontana dagli orchi in divisa. Forse stiamo giocando assieme.

 

Riccardo Venturi

 

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Ultima modifica il Venerdì, 28 Febbraio 2025 10:20

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