Fra i tanti problemi mai risolti che periodicamente si ripresentavano nella vita della Comunità di Portoferraio, uno era quello della macinazione del grano. Problema non di poco conto, visto che il pane era l'elemento essenziale dell'alimentazione dei portoferraiesi, specie delle famiglie più povere.
Sin dal suo nascere come avamposto mediceo Portoferraio fu sempre alla ricerca di mulini in grado di assicurare la farina necessaria al sostentamento di una popolazione in crescita. Ma la costruzione di mulini - siano essi a trazione umana o animale (detti “a secco”), oppure mossi dal vento o dall'acqua - non tenne mai il passo con l'incremento demografico e con la necessità, quindi, di avere più farina. Nella seconda metà del Seicento i mulini di cui Portoferraio poteva disporre erano una novantina fra macinelle a mano e macine più grandi mosse da due uomini (parte dislocate nelle fortezze e parte nei sotterranei di San Francesco), quattro mulini a vento nella omonima località cittadina, tre mulini a acqua nella valle degli Alberi sotto al Volterraio. Mulini a trazione animale dovevano esser stati collocati in stanze attigue agli arsenali, dette perciò Magazzini delle Mule. Dotazione che si mantenne costante sino alla costruzione dal 1748 al '52 di tre mulini a vento a spese dell'Abbondanza sulla collina di San Rocco. Purtroppo questa dotazione era assai insicura: i mulini mossi da uomini o bestie avevano una produttività bassa, mentre i mulini a vento erano in continua riparazione a causa dei loro ingranaggi soggetti a usura, e quelli a acqua spesso, durante la buona stagione, non avevano sufficiente portata. Ragion per cui il ricorso a altri mulini era pressoché inevitabile. A fine Settecento si ricorse a mulini privati quali quello dei Franceschi, quello della Chiusa o quello del Morelli, ma ciò non fu ugualmente sufficiente.
Durante il breve periodo in cui il duca di Firenze aveva esercitato il proprio dominio su tutta l'isola, vale a dire dal 1548 al 1557, molta parte del grano che arrivava in porto prendeva la via dei mulini di Rio e Marciana. I mulini marcianesi e riesi avevano il vantaggio di avere sempre acqua. Quelli riesi, poi, prendevano l'acqua dalla Fonte ai Canali, una vera mirabilia dell'isola di cui si diceva e scriveva (come fece Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta Italia, Venezia 1561) che gettasse più acqua l'estate che l'inverno e vari studiosi si attardavano a spiegarne il perché con ragionamenti assai lontani dalla scienza moderna. Dopo la riconsegna da parte del re Filippo di Spagna nel 1557 dello Stato di Piombino, e quindi dell'Elba, agli Appiani e la conferma di Portoferraio in mano medicea, i mulini tanto usati di Rio e Marciana divennero a tutti gli effetti mulini stranieri e il granduca invitò i governatori a non usarli più.
Governatori e provveditori erano però poco propensi a ottemperare alle indicazioni granducali. Addirittura un provveditore, Piero Rossi, rischiò di giocarsi la carriera insistendo nell'usare i mulini di Marciana, tanto da comprarne uno e costruirne un altro accanto (si tratta del Mulino del Piano e siamo negli anni ottanta del XVI secolo).
Una tale insistenza da parte delle autorità centrali era dovuta al pericolo che il grano o la farina mandati ai mulini stranieri potessero essere sequestrati, come ritorsione per i tanti piccoli conflitti fra i due vicini, come in effetti successe qualche volta. Circolavano, poi, delle voci che la farina inviata fuori da Portoferraio potesse essere scambiata con altra di peggior qualità. Successe anche che una volta il principe mettesse di punto in bianco una tassa sul macinato quando già i sacchi di grano erano nei magazzini piombinesi: una specie d'estorsione. Inconvenienti che derivavano tutti dal non poter controllare il viaggio del cereale, affidandolo completamente a figure che per forza di cose non erano tenute a render conto al governatore. Per inciso, una volta (nel 1676) successe che gli anziani di Marciana scardinassero la porta dei magazzini dove era depositato il grano di Portoferraio per impossessarsene. Ma in quel caso la motivazione fu la grande carestia che aveva attanagliato l'isola e tutti furono disposti a chiudere un occhio.
Ma qual era l'alternativa all'uso dei mulini stranieri voluta dal granduca ma poco considerata dai portoferraiesi? L'alternativa fu inizialmente costituita dai mulini situati sul fosso della Caldana di Campiglia. Il grano veniva condotto al mulino detto “della duchessa” perché situato nel podere appartenente alla Comunità di Campiglia ma preso in affitto nel 1550 da Eleonora di Toledo (prima moglie di Cosimo I) allo scopo di farvi un allevamento di cavalli di razza. Venivano anche utilizzati i mulini privati dei signori Montemerli, proprietari delle contigue ferriere. Ma il viaggio del cereale era un po' complesso: approdato allo scalo di Campiglia veniva trasferito su piccole imbarcazioni che risalivano il fosso sino agli impianti molitori. Lo stesso viaggio che faceva il minerale di ferro dell'Elba che nelle ferriere della Caldana veniva trasformato in munizioni d'artiglieria. Munizioni e farina tornavano poi procedendo a ritroso al medesimo scalo dove venivano imbarcate per l'Elba.
Per evitare gli inconvenienti di questo non semplice trasporto il granduca fece costruire nel 1561 il mulino della Torre Nuova, posto allo sbocco in mare del canale emissario del lago di Rimigliano (San Vincenzo). Questo mulino era una vera e propria dipendenza di Portoferraio, come ebbe a scrivere a metà Settecento Odoardo Warren, direttore generale delle fortificazioni di Toscana, nella sua monumentale rendicontazione dei luoghi fortificatii, accompagnando l'illustrazione della Torre Nuova con queste parole:
«Descrizione della Torre Nuova dependente da Portoferraio – L'imbarazzo nel quale si trova la piazza di Portoferraio per mancanza di mulini bastanti per macinare il grano che annualmente consuma, essendo obbligata di mandarlo a Pisa, o fuori di stato per farne della farina, è senza fatto la cagione che à fatto fabbricare la Torre Nuova».,
Le casse granducali gestite dal provveditore di Portoferraio mantenevano a Torre Nuova due mugnai e un castellano che aveva il compito di segnalare con un fuoco in caso avvistamento di pirati. A Torre Nuova c'erano due ruote verticali che facevano muovere due macine: riparazioni e migliorie dell'impianto (che erano frequenti) erano anch'esse a carico della cassa granducale portoferraiese. Ma nemmeno la realizzazione dei due mulini della Torre Nuova riuscì ad impedire l'uso dei mulini stranieri di Rio e Marciana, e la ragione è evidente: l'attraversamento del canale di piombino era troppo dipendente dalle condizioni atmosferiche: si pensi che un frate missionario, fra Giuseppe da Fiorenza, che a fine Seicento doveva venire all'Elba, dovette aspettare ben 18 giorni per attraversare il canale. Inoltre vi era il rischio concreto che le imbarcazioni venissero attaccate dai pirati o dai corsari.
Ancora durante la reggenza lorenese, siamo nel 1739, il Richecourt (che insieme al principe di Chraon dirigeva gli affari toscani) così scriveva agli abbondanzieri che gestivano la panificazione a Portoferraio:
«Sento, con non poca meraviglia, che, quantunque vi sieno de' mulini nella giurisdizione di Sua Altezza Reale a Portoferraio, lor signori mandino, non ostante questo, a macinare i grani fuori dello stato; il che è un vero abuso, ed al quale conviene rimediare: a questo effetto lor signori manderanno in avvenire a far macinare tutti i loro grani ne' mulini situati nella giurisdizione di Sua Altezza Reale, fuori che in caso di necessità, nel qual tempo potranno mandare fuori dello stato, dopo però di averne reso conto al Signor Governatore, e di averne ottenuta in scritto la di lui permissione».
Il goverantore, all'epoca Giovan Vincenzo Coresi del Bruno, non si attardò a dare questa risposta:
«Considerandosi che presentemente, tanto alli mulini degl'Alberoni [Alberi], e degl'altri in questo territorio, come ancora li mulini a vento, che si ritrovano in questa piazza, e nella medesima giurisdizione a Torre Nuova un mulino a acqua, non danno sufficiente quantità di farina, per il mantenimento opportuno di questa piazza che per un tempo assai breve, si fa reflessione, che per il buon servizio di Sua Altezza Reale convenga senza prendersi esempio, né contro gl'ordini di Sua Altezza Reale per questa sol volta, quando non seguissero nuove urgenze, che li Signori Abbondanzieri faccino far macinare alli mulini più contigui di questa giurisdizione fuori delli Stati di Sua Altezza Reale, e con minore risico possibile, quei grani che ridotti in farine possono servire per una competente provvisione necessaria».
Naturalmente tutti sapevano che non si trattava di certo di una “sol volta” ma di una pratica ormai più che consolidata.
Fabrizio Fiaschi
NB
- Tutti i riferimenti archivistici e bibliografici si potranno trovare in: F. Fiaschi, Il pane di Cosmopoli
La gestione della panificazione a Portoferraio dal 1548 alla fine dell'Azienda dell'Abbondanza, in corso di pubblicazione.
- Immagine a corredo del testo: Mulino a vento. Da: A. Ramelli, Le diverse et artificiose machine del capitano Agostino Ramelli dal ponte della Tresia ingegniero del Christianissimo Re di Francia et di Pollonia., Parigi, 1588, Fig. 132.