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Figurine Marinesi - Luchino, il re dei polpai, e la Tacca di Fondo

Scritto da  Umberto Mazzantini - Walter Mazzei Venerdì, 13 Giugno 2025 10:12

Walter “Taballi” Mazzei ha scritto questo bel racconto su due miti del nostro mare: Luchino, il re dei polpai, e la Tacca di Fondo (lo squalo bianco) il terrore dei mari. Un racconto che lega l’oceano più lontano al nostro mare domestico e alla nostra isola popolata di venditori di granfie di polpo. Una storia – quasi una “Ballata del mare salato” in salsa marinese e anche un po’ autobiografica - di squali e pentole di polpi bolliti e pementina ormai quasi estinti ma che la penna di Walter fa rivivere lasciandoci con la speranza che il passato e il futuro si tocchino come il grande e giovane pesce che ha attraversato il mondo e Luchino che è rimasto per tutta la vita a scrutare il fondo del mare tra La Madonnina e il Nasuto. Una strana amicizia marina.

 

Umberto Mazzantini

 

IL SEGRETO DI LUCHINO

 

1) La tacca di fondo

Nelle acque fredde e ricche di plancton al largo della Skeleton Coast, in Namibia, una femmina di squalo bianco — lunga oltre quattro metri — si muove lenta ma decisa. È gravida da oltre un anno e ha scelto queste acque profonde e turbolente per dare alla luce i suoi piccoli.
Nessun nido, nessuna tana: solo l’immensità dell’oceano, dove la vita si rinnova con violenza e silenzio. Una mattina di nebbia e correnti forti, il primo piccolo esce dal corpo materno: un cucciolo lungo poco più di un metro, già formato, già armato di denti e di istinto.
Subito nuota via, spinto da un riflesso antico quanto l'oceano stesso. La madre non lo guarda, non lo segue. La sua funzione si è compiuta. Come per tutti gli squali bianchi, la prole nasce indipendente, pronta a sopravvivere da sola fin dal primo istante. Il piccolo scende subito in profondità, dove l’acqua è più stabile e ricca di nutrienti.
I primi giorni sono un continuo esercizio di adattamento. Si muove poco, sfrutta le correnti per spostarsi senza sprecare energie. La sua dieta inizia con piccoli pesci e carcasse. È attratto dall’odore, dalla vibrazione, da ogni segnale elettrico nel mare. Non conosce paura, ma conosce la fame. Ogni giorno affila la sua strategia di caccia, affinando i sensi.
Passa vicino ai relitti arrugginiti che punteggiano la costa — scogliere d’acciaio sommerse, popolate da prede e predatori. Impara a riconoscere i suoni del pericolo e della vita. Il primo vero scontro arriva al tramonto del terzo giorno. Un grosso barracuda lo affronta per contesa di territorio. Lo squaletto non fugge, si muove lateralmente, confonde l’avversario, affonda i denti per la prima volta con la forza di un predatore nato. Non lo uccide, ma vince: è il suo primo trionfo, e da lì in poi il suo corpo inizierà a crescere più rapidamente.
Passano i mesi. Il piccolo squalo bianco, che ora misura quasi due metri, ha imparato a padroneggiare l’arte della sopravvivenza. Le sue prime vere prede sono giovani foche del Capo, goffe nel loro entrare in acqua, ignare del pericolo. Il giovane predatore le osserva pazientemente, da sotto, sfruttando la luce del sole come velo.
Quando scatta, è un fulmine. Preciso. Letale. Ma ogni caccia è anche un rischio. Le madri foca difendono i piccoli con zanne affilate e colpi improvvisi. Una volta, durante un assalto mal calcolato, lo squaletto viene colpito al fianco: una ferita superficiale, ma sufficiente a insegnargli che anche i cacciatori possono sanguinare.
Un giorno, mentre pattuglia la sua zona costiera preferita, sente qualcosa cambiare. L’acqua si fa più densa, più elettrica. Poi lo vede: un maschio adulto di oltre cinque metri entra nel territorio. È uno squalo bianco maturo, vecchio e dominante, con una cicatrice che gli taglia il muso.
Non tollera intrusioni. Il giovane comprende subito che non può competere. Il vecchio squalo lo sfida: prima con una carica veloce, poi con un cerchio largo e minaccioso. Il messaggio è chiaro. Questo non è più il suo mare. Quella stessa notte, spinto dalla fame e dall’istinto, il giovane si allontana verso il largo. Lì, incontra un fenomeno naturale maestoso: la corrente di Benguela, che trasporta masse d’acqua fredda e nutrienti dal sud verso il nord lungo la costa africana. In essa si muovono milioni di sardine, come un fiume d’argento che danza nel blu.
Il giovane squalo si unisce alla processione. Si nutre abbondantemente e segue quella linea vivente che si estende per chilometri. L’oceano cambia sotto di lui: la sabbia chiara lascia spazio a fondali più scuri, le acque diventano più calde e affollate, popolate da delfini, orche, tonni giganti.
È l’inizio della sua risalita verso nord, un viaggio che lo porterà attraverso le coste dell’Angola, poi quelle del Gabon, e oltre. Inseguito da correnti, ombre e fame, cerca non solo cibo, ma un nuovo equilibrio, un nuovo territorio. Non è più il cucciolo della Skeleton Coast.
È un giovane solitario in cerca di un regno. E qualcosa, nell’istinto profondo del suo cervello primordiale, gli dice che il viaggio è appena cominciato.

 

2) Luchino

Il quartiere dei pescatori era un groviglio di vicoli scrostati dal sale, arrampicato sopra una grande scogliera che tutti chiamavano Il Cotone. Da lassù, le case parevano incastrate tra le rocce, aggrappate al vento che sapeva di salsedine e vecchi racconti. Lì era nato Luchino, e lì era rimasto, fedele al mare come un cane al padrone.
Luchino non era un pescatore qualsiasi. Non gettava reti, non calava palamiti. Faceva il polpaio uno dei più mestieri più antichi e diffuso in tutti i paesi marini dell'isola. Prima di lui c'era Giovacchino dal quale aveva appreso i segreti del mestiere più silenzioso: catturare i polpi. Ogni mattina, prima dell’alba, lasciava l’insenatura della grande scogliera sul suo gozzo di legno sbrecciato, color del cielo stinto.
Non aveva il motore pian piano con i suoi remi usciva dalle acque protette, puntando verso i suoi scogli sommersi che solo lui sapeva leggere. Aveva un occhio infallibile nel riconoscere le tane, anche quelle mimetizzate tra le alghe o sotto le pietre. Passava ore appoggiato sul bordo della barca, in equilibrio perfetto, manovrando con un solo remo tenendo lo sguardo fisso giù, nei fondali chiari e increspati.
Il suo fianco sinistro, sempre a contatto col legno ruvido della barca, s’era indurito come la pelle delle vecchie reti: un callo permanente, la sua medaglia da cacciatore silenzioso. Quando un polpo lo avvistava, era già troppo tardi. Luchino manovrava con destrezza la sua polpaia e lo tirava fuori con un colpo secco, calmo come un chirurgo. In una giornata buona, ne prendeva sette, otto, dieci. Tornava a casa verso mezzogiorno.
Sua moglie aveva già preparato la grande pentola d’alluminio, annerita dal tempo, dove i polpi bollivano il giusto, affinché non fossero troppo duri, ma neppure troppo molli. I suoi soli ingredienti erano acqua, peperoncino piccante che nel suo paese chiamavano pomentina e sale, nient’altro, il profumo invadeva i vicoli.
I gatti lo aspettavano, ma Luchino era severo: niente ai gatti, tutto al banco. Verso sera, con la pentola ancora calda stretta al petto, si sedeva nella piazzetta del paese, a destra della chiesa e davanti al bar perché, nessuno avrebbe mai mangiato una grampia, come i paesani chiamavano i tentacoli, senza accompagnarla con un bel bicchiere di vino. Il suo “banco” era una vecchia panchina di granito, sul quale appoggiava la grande pentola ben chiusa e avvolta in uno stracciò, affinché l’acqua del polpo restasse calda.
Accanto metteva un bicchiere d’acqua dove galleggiavano cinque o sei forchette. Quando un cliente si avvicinava, spesso già con il bicchiere di vino in mano, Luchino pescava con la forchetta, una grampia, la tagliava e la porgeva al cliente, aspettava che il cliente terminasse di mangiare dopodiché rimetteva la forchetta usata nel bicchiere insieme alle altre.
E lì mare si mangiava a morsi. Senza posate di casa, senza piattini eleganti, senza troppe storie. Solo un tentacolo bollito, una forchetta che passava di mano in mano, e i denti pronti ad affondare. Ogni morso era un pezzo di scoglio, un’onda salata, un segreto rubato al fondale. La gente non veniva da Luchino per fame. O meglio, non solo. Veniva per quel morso collettivo, perché lì si sentivano parte di qualcosa. Era un gesto semplice, ma pieno di sapore, di passato e di mare. Un morso dato in piedi, col bicchiere del bar ancora mezzo pieno, con le dita bagnate dell’acqua di polpo, e magari una sigaretta accesa nell’altra mano.
C’erano giorni in cui, verso sera, tutta la piazza sapeva di polpo e risate. La pentola era ancora tiepida e il bicchiere delle forchette sembrava una fontana sacra. Chi arrivava tardi trovava solo acqua torbida e pezzetti di pomentina. Ma anche quello, per qualcuno, valeva la passeggiata. “Il mare si mangia così,” diceva Luchino, “a morsi e a sorrisi. Senza tovaglioli e senza vergogna.” E c’era chi annuiva, chi rideva, chi semplicemente allungava la mano e si prendeva la prossima forchetta.

 

3) I tonni

Ora è lungo tre metri e mezzo. Muscoli tirati come cavi, mascelle temprate dal tempo e dalla fame. Il giovane squalo è diventato un predatore maturo, solitario, e sempre in movimento. Ha lasciato da tempo le acque dell'Angola, ha sorvolato fondali desertici, costeggiato piane costiere e scavalcato correnti fredde e calde come sentieri invisibili.
Ma è il richiamo dei tonni rossi, veloci come proiettili e grassi di carne, a portarlo verso nord. Li segue come un’ombra: li avvista, li rincorre, li studia. Non è facile. I tonni viaggiano in branco, sono organizzati, imprevedibili. Ma lui ha imparato. Sa quando colpire, e quando aspettare.
Una volta cattura tre tonni in un giorno solo, e per la prima volta, sente qualcosa di simile alla sazietà. È proprio mentre insegue uno di questi banchi che vede qualcosa cambiare nell'acqua. Il colore si fa più chiaro, quasi turchese. La temperatura sale. L’odore muta: meno alghe, più plancton. E il rumore… sì, il rumore dell’acqua si fa diverso, quasi più denso, come se da qualche parte ci fosse un confine.

 

4) Lo Stretto di Gibilterra

Lo attraversa senza saperlo. Per lui è solo un passaggio, una nuova zona di caccia. Ma qualcosa lo colpisce: l’acqua è più chiusa, più pressata. Più viva. I fondali si restringono, la luce si riflette in modo diverso. È entrato nel Mediterraneo, il Mare Nostrum, dove le storie sono più antiche delle conchiglie.
È un mondo nuovo. I tonni ci passano ogni anno, per la grande migrazione. Anche lui, senza sapere perché, li segue. Le coste diventano più frequenti, le acque più trafficate: delfini, navi, reti, relitti. Tutto è più vicino, più umano. Ma lui non si ferma. Sa che deve andare ancora più in là.
È un predatore, ma anche un pellegrino. E mentre nuota, portando con sé il ricordo delle foche, delle sardine, del vecchio squalo che lo scacciò, e delle prime cacce vittoriose, si avvicina a un mare che non conosce… ma che lo aspetta. Il giovane squalo bianco segue il banco di tonni lungo le coste spagnole. Il mare si è fatto più chiaro, la luce filtra attraverso l’acqua limpida, disegnando danze mobili sui dorsi dei pesci.

 

5) La tonnara

I tonni accelerano all’improvviso. Lui dietro. Sempre più veloce, pronto a colpire. Poi, tutto cambia. Un tonno vira bruscamente, altri si disperdono nel panico. Lui non capisce subito. Ma in pochi secondi, si trova circondato. Qualcosa lo blocca. Una parete invisibile, dura, tesa, che non cede.
Tenta di passare, ma una rete spessa quanto un dito d’uomo lo respinge con violenza. È finito dentro una tonnara. Il fondo è profondo, ma le pareti salgono dritte e senza uscita. I tonni sbattono ovunque, in preda al caos.
Il rumore del mare è coperto da un suono cupo e costante: le barche sopra di lui stanno tirando la rete. Sale una sensazione nuova, mai provata: panico.
Spinge, colpisce, gira in tondo. Ovunque, reti. Si sente chiuso, tradito dal mare stesso. Sopra, la luce si fa più intensa: la rete si avvicina alla superficie. È la fine. Il suo mondo sta diventando una trappola sempre più stretta. Poi, un odore. Una corrente. Qualcosa. Nell’angolo più basso della rete, lì dove i tonni non passano più, dove tutto sembra già deciso, trova uno spiraglio, uno sfilacciamento della rete spinta dalla pressione.
Non ci pensa. Spinge tutto il suo corpo contro quel buco, sente la pelle graffiarsi, la pinna piegarsi. Ma passa. E all’improvviso… mare aperto. Acqua libera. Profonda. Vera.
Nuota lontano, come se lo inseguissero ancora, come se il mare potesse di nuovo ingannarlo. Ma poi rallenta. Respira. Capisce di avercela fatta. La tonnara è alle spalle. I tonni sono persi. Ma lui è vivo. Il giovane squalo bianco si allontana, ancora una volta salvo, ancora più saggio, ancora più solo. Ma vivo.

 

6) La piazza di sopra

La piazza di sopra, come tutti la chiamavano, si svuotava piano. L’ultimo sole passava tra i tetti, sfiorando le bottiglie appoggiate sui muretti e le gambe stanche degli ultimi clienti. Luchino era al solito posto. La pentola avvolta nello strofinaccio, le grampie immerse nell’acqua tiepida, e un bicchiere basso di vino bianco lì accanto.
Tagliava, serviva, ascoltava. Un ragazzo si avvicinò. Parlava con la voce alta di chi vuole farsi notare. «Luchì, ma l’hai sentita quella di Remo? Dice che se non era vicino agli scogli, la tacca di fondo se lo mangiava vivo!» Fece una risata. «Stai attento anche te… magari ti viene a trovare una di queste notti.»
Luchino non rispose. Prese una grampia, la tagliò e la passò a un cliente in attesa. Non guardava neppure, ormai era tale l’abitudine, che le mani facevano il lavoro da sole. Uno dei vecchi, seduto poco distante, parlò senza guardare nessuno.
«Remo non inventa. Se ha detto che l’ha vista girargli sotto la barca, è vero. L’acqua era piatta, e trasparente. Quando si è inclinata, lo ha guardato con un occhio grosso come un piattino da caffè» Un altro aggiunse: «E non è la prima volta. È da sempre che gira da queste parti. Lo diceva il mi’ babbo. E il su’ babbo prima. La tacca di fondo non è una storia per far paura ai bambini. È vera.
C’è. E ci gira intorno da più di quanto tu riesca a ricordare.» Il ragazzo tacque. Lo sguardo meno sicuro. «E Aniello?» disse allora il primo vecchio. «Quello sì che la incontrò per davvero. Gli prese la barca a morsi. Una prua intera, segnata come da una tagliola. Io, la dentata l’ho vista. .»
Luchino prese fiato. «Quando ero piccolo, mi dicevano di non andare troppo fuori. Dicevano che la tacca di fondo ti prende. Che non si vede, ma c’è. E è talmente grossa che, quando passa, la sua ombra, fa cambiare colore al mare.»
Quando la pentola fu vuota, la coprì con cura e la avvolse nello strofinaccio. Salutò con un cenno quelli rimasti. Non disse altro. Prese la strada che saliva verso il Cotone, dove il selciato si stringe e le case sembrano appese alla roccia. Camminava piano, la pentola nel braccio sinistro, il bicchiere con le forchette e il coltello nell’altra mano.
La salita non era lunga, ma bastava a far venire il fiato corto se avevi avuto una giornata piena. Arrivato alla curva, che si affacciava sulla piccola piazzetta sopra la scogliera, si fermò. Appoggiò il bicchiere sul muretto. Guardò il mare. Era immobile. Il sole era sceso quasi tutto, restava solo una lingua rossa sull’acqua.
Le barche erano ferme nell’insenatura, piccole e stanche. Pensò alla tacca di fondo. Non come leggenda. Non come racconto. Ma come qualcosa che c’era sempre stata. Che non si vedeva, ma girava. Sotto. In attesa. Restò a guardare ancora un momento. Poi prese il bicchiere, strinse lo strofinaccio e proseguì in salita. Senza fretta.
La mattina seguente il mare era calmo e limpido, teso come pelle liscia sotto la luce del primo sole. Luchino aveva lasciato il molo presto, con le esche e le lenze avvolte dentro il secchio.
La barca scivolava tra i bassi fondali, dove le rocce affiorano appena sotto il pelo dell’acqua e il vento arriva solo di taglio. Aveva remato piano fino alla secca lunga, la conosceva da quando era ragazzino. Lì sotto ci trovava sempre qualche polpo. Si fermò e tirò fuori lo specchio.
Era un vecchio secchio con il fondo di vetro spesso. Lo immerse piano, con la mano ferma, e guardò. Sotto di lui, tra le pietre e le chiazze di sabbia, il mondo sembrava sospeso in un altro tempo. Muoveva lo specchio a piccoli cerchi, cercando segni, movimenti, qualcosa che tradisse la presenza della sua preda.
Una ventina di metri più in giù, nascosti tra due creste di scoglio, due ragazzi con muta e bombole lo osservavano. Avevano già tre grosse granceole in un retino legato alla cintura. Le chiamavano margherite. Nessuno, sapeva il perché, forse per la loro forma. Uno dei due guardò verso l’alto. Vide la barca ferma, la sagoma curva di Luchino piegato sul secchio. Fece un gesto all’altro. Si spostarono lenti, ormai con le bombole quasi vuote. Si guardarono. Poi trattennero il fiato. Salivano piano, senza respirare per non fare bolle, come due serpi d’acqua.
Arrivarono sotto la chiglia. Uno allungò le mani, afferrò la barca, e la scosse con due colpi netti. Luchino sobbalzò. Lo specchio gli sfuggì di mano e sbatté contro il bordo della barca. L’acqua tremò dentro il vetro. Qualcosa era sotto. Si alzò in piedi. Il remo era già nelle mani.
Guardava l’acqua intorno, tesa. Gli occhi fissi, le braccia ferme. Il cuore gli batteva come un tamburo. Poi due mani emersero a prua. Lenti, come in un brutto sogno. Due teste con la maschera, nere, tonde, gli sorrisero da sotto l’acqua. Luchino gridò qualcosa di secco e calò il remo con forza in acqua.
Per poco non colpì uno dei due sul boccaglio appena rimesso. «Oh, non ti far venire l’infarto, è uno scherzo! Siamo noi!» gridò il primo, sputando l’acqua. L’altro mostrò la granceola. «Guarda che margherita, Luchì! Dì la verità, pensavi che era la tacca di fondo, eh?» «Hai fatto un salto che a momenti ti ribaltavi!» aggiunse l’altro, ridendo e tossendo per l’acqua di mare bevuta.
Luchino rimase in piedi, senza dire nulla. Poi si sedette. Il secchio era rovesciato. L’acqua scivolava giù dalla tavola di poppa. Il cuore andava ancora forte. Li guardò con la bocca dura, ma negli occhi qualcosa si sciolse. «Andate a fare in culo, stronzi», disse piano. Ma il sorriso gli si aprì lo stesso, sottile. I ragazzi risero ancora. Poi si aggrapparono alla barca e la spinsero verso terra, piano, come se nulla fosse.

 

7) L’incontro

Fece due giorni di grecale, e come si diceva “con il grecale ne a caccia ne a pescare, ma poi il terzo giorno tutto si calmò, il mare era fermo. Neanche una ruga. Così di buon’ora, praticamente all’alba, Luchino aveva lasciato l’insenatura del Cotone.
Aveva scelto la zona davanti alle Sprizze, dove il fondale era una distesa di scogli tagliati e pozze sabbiose. Lì, i polpi c’erano sempre e ne aveva già preso una decina. Il remo era fermo, infilato tra le ginocchia. La barca stava immobile. Lui teneva la lenza tra le dita callose.
Aveva calato una delle sue migliori polpaie: il piombo pitturato di bianco con ami lucidi, e un’esca messa come si deve — zampa di gallina, brandello di pesce andato, e uno straccetto bianco legato sotto. Iniziò a farla danzare sul fondo. La faceva saltare piano tra le rocce, toccava, strisciava, si fermava. Con piccoli colpi di polso, dosati. Come una danza muta. La polpaia si muoveva tra gli scogli come un animale ferito. E quello bastava.
Un colpo. Luchino sentì la tensione subito. La lenza si tirò forte, di scatto. Abboccato. Doveva essere grosso. Sentiva il peso, la resistenza di chi non vuole venire via. Iniziò a tirare con calma, come aveva fatto mille volte. Un colpo secco, poi a tirare su con la mano libera.
Il polpo resisteva, era pesante ma veniva. Poi, d’un tratto, la lenza si alleggerì. Non come quando si stacca. Ma come quando qualcosa taglia. Rapidamente Luchino la tirò tutta su. Il nylon era reciso. Pulito. Senza sfilacciature. Strinse le labbra. Guardò il mare intorno. Silenzio. Nessuna barca. Nessun ragazzo con le bombole. Nessuno scherzo.

Sentì qualcosa cambiare. Un silenzio diverso. L’acqua si muoveva. Ma non era vento. A sinistra, qualcosa emerse. Una pinna triangolare. Lenta. Grande. Girava attorno alla barca come un pensiero. Luchino si alzò in piedi. Guardò sotto. Il mare era chiaro. Trasparente. E lì, nell’azzurro profondo, vide la sagoma.
Quasi cinque metri. Chiara sul dorso. Grigia sotto. Gli occhi neri. Lo squalo si muoveva piano. Come se sapesse. Aveva preso il polpo. Luchino non parlò. Non urlò. Restò lì, in piedi sulla sua barca di legno, con la lenza vuota in mano. E per la prima volta, in tanti anni di mare, non si sentì il cacciatore, ma la preda.
Lo squalo si avvicinava ancora. Luchino lo vide cambiare direzione. Non stava più girando attorno alla barca: ora puntava dritto a prua. La pinna si abbassò. La sagoma sparì sotto. Il sangue di Luchino si gelò. Sentiva il cuore battere nelle orecchie, nel collo, persino nelle mani.
Ogni fibra del suo corpo diceva di fuggire, ma la barca non aveva motore e con i remi avrebbe fatto ben poco. Era fermo. Immobile. Il mare si fece pesante. Lento. Poi riemerse. Lo squalo si avvicinò al fianco della barca. A meno di un metro.
Non toccava. Non colpiva. Solo passava. E tornava. Curioso. L’animale non conosceva la barca. Non come qualcosa da mangiare. Non era viva, né vibrava. Aveva forma, odore, ma nessuna consistenza di preda. Eppure, emetteva rumore, una vibrazione sottile che attirava. Si avvicinò. Sfiorò lo scafo con la punta del muso, poi con il fianco.
No, non era carne. Non era osso. Non era cibo. Ma sotto il legno, sentiva qualcosa. Odore di pesce. Di sangue. Di sale vecchio. E si fermò. Luchino era rigido. Le mani strette sul bordo della barca. Guardava il punto dove lo squalo si era fermato. Aspettava.
Aspettava la botta, il morso, la virata. Invece no. Lo squalo era lì. Come in ascolto. Come in attesa. Un pensiero gli attraversò la testa, semplice, disperato. “Se ha fame… e io gli do da mangiare… magari mi lascia stare.” Si mosse a scatti. Aprì il cesto. Prese il primo polpo. Lo guardò un attimo — grosso, tondo, ancora vivo — e lo lanciò oltre il bordo, vicino al muso della bestia.
Lo squalo girò. Un morso solo. Il polpo sparì. Un altro. E un altro ancora. A uno a uno, Luchino li buttava in mare. Lo squalo li prendeva piano. Senza fretta. Come se sapesse che ce n’erano ancora. Il vecchio pescatore si fermò. Nel cesto era rimasto solo il panino. Pane duro, pomodori secchi, un pezzo di pecorino. Lo aprì spezzandolo e glielo lanciò.
Lo squalo si avvicinò. Piano. Come per annusarlo. Poi si fermò di nuovo, affiancato alla barca. Luchino si asciugò la fronte col dorso della mano. Guardava quell’ombra lunga e bianca a meno di due metri. Sembrava stesse aspettando qualcosa. Parlò. Non forte. Non piano. Solo con la voce che aveva.
«Non ho più niente da darti. Io sono magro, tutt’ossa…» Fece una pausa. «…ma se mi lasci stare, ti prometto che… non tutti, eh — altrimenti muoio io di fame— ma un polpo ogni tanto te lo do. Cosa ne dici?»
Lo squalo non si mosse. Poi si girò. Una virata larga. Un cerchio. E tornò, piano, a fianco della barca. Non per attaccare. Solo per accompagnarla. Luchino rimase lì. Mano sul remo, occhio al mare e riprese a pescare, la barca scivolava lenta sull’acqua con alla sua sinistra, la tacca di fondo che nuotava piano. Un metro sotto la superficie. Lenta, possente, viva.
E Luchino mantenne la promessa. Uno a lui. Uno alla tacca di fondo. La pesca fu buona. Il mare generoso. Tirava su polpi come non accadeva da tempo. Li batteva sul legno, li riponeva nel cesto. Lo squalo restava accanto, silenzioso, come un’ombra amica.
Poi, d’improvviso, si fermò. Si voltò. Con un colpo di coda scomparve tra i flutti. Luchino restò a guardare. Poi girò la prua e remò verso casa. Ormeggiò al solito posto. Scese. Si fermò. Si diede uno schiaffo. «No, non sto dormendo.» Non era un sogno. Ma sembrava.
Se l’avesse raccontato, l’avrebbero preso per scemo. O sarebbero corsi a cercare il fiasco nascosto sul guzzo pensò. Prese il secchio. Tornò a casa. Il giorno dopo, bollì i polpi. Pomentina, acqua e sale. Come sempre. Poi scese in piazza. Panchina, forchette, vino bianco. La pentola ben coperta dallo strofinaccio. «Allora, Luchì,» disse qualcuno, «anche stavolta la tacca di fondo non ti ha mangiato?» «No,» disse. «È mia amica, non è gattiva.»
Risero tutti.

 

Luchino non raccontò mai a nessuno il suo segreto e non si sa se rivide ancora la tacca di fondo.
Un giorno, alcuni pescatori lo videro sul suo gozzo che batteva un polpo sulla fiancata e poi lo immergeva in mare. Poi si alzò in piedi mettendosi una mano sugli occhi, scrutando l’orizzonte.
Altre volte lo potevi incontrare alla curva sopra la Madonnina che guardava il mare. Era sempre come se cercasse qualcosa.
Ma nessuno capì mai cosa.

 

Walter Mazzei

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Ultima modifica il Venerdì, 13 Giugno 2025 11:04