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A Parigi con Giordano

Scritto da  Umberto Mazzantini Venerdì, 01 Agosto 2025 15:20

Con Giordano Taccioli, che aveva un paio di anni più di me, ci eravamo probabilmente conosciuti all’IPSIA come svogliatissimi studenti, e poi come bigliettai stagionali sui pullman, quando ancora c’erano quelle strane macchinette a manovella per fare i biglietti e noi fattorini aprivamo e chiudevamo a mano le porte ai passeggeri e portavamo i giornali e i sacchi della posta nei Paesi.

 

Giordano era socialista (il socialista anticomunista più comunista che ho conosciuto) e io uno dei capetti della federazione giovanile comunista, ci annusavamo da lontano, ma tra un’attesa e l’altra ad aspettare al Grattacielo del Porto il turno sul pullman scoprimmo di avere una passione in comune: la Francia. Io c’ero già stato. Giordano no e mi chiese di andare insieme a Parigi, passando prima da San Siro a vedere Milan – Juventus. Io volevo andare nella capitale francese per fare la mezza maratona Parigi Versailles, Giordano per vedere il Louvre e mangiare francese. Partimmo io con le tasche quasi vuote (250.000 lire) e lui ben fornito, ma senza rivelarmi quanto ero fornito. Un miserabile e un signore.

 

Arrivammo a Parigi assonnati da una notte in treno e abbacinati dall’immensità della Gare de Lyon e andammo a dormire in un albergo scalcinato, il Gros Caillou a due passi dalla Tour Eiffel, Giordano si innamorò subito della portiere ebrea tatuata che faceva gli occhi dolci a me e che ci accompagnò nella nostra camera da poveracci, col pavimento di linoleum che scricchiolava e gli spifferi da una porta rumorosa. Ma da una finestra si vedevano i tetti di Parigi. Io avevo forse 16 anni Giordano forse 18 e russava come un mantice che faceva tremare la porta e la finestra. Ora quell’ostello è diventato, senza cambiare nome, un albergo a 5 stelle e chissà che fine avrà fatto la portiera ebrea tatuata con gli occhi dolci.

 

Scoprimmo subito che una delle cose che voleva fare Giordano, mangiare in un restaurant francese, non era possibile – almeno per me - e così portai quel corpulento e affamato amico a mangiare in economicissimi ristoranti cinesi e vietnamiti e a scoprire il kebab, ancora più economico, dagli algerini che consideravano ancora gli italiani quasi cugini perché per i francesi eravamo ancora quasi algerini.

 

Scoprimmo anche che Giordano poteva pagarsi il biglietto del Metrò e io no, così lui passava e io gli stavo attaccato dietro o scavalcavo i tornelli, sempre con la paura che qualche flic ci trovasse e ci desse di manganello, come vedemmo fare con un curdo che aveva nella giacca la stella rossa del Partîya Karkerén Kurdîstan‎ e che però non aveva biglietto.

 

E una manganellata toccò anche noi. Le cose andarono così:

 

Giordano sembrava avere un fiuto per andare nei posti quando erano chiusi. Quando decidemmo di andare al Louvre – che non aveva ancora davanti la piramide di vetro voluta da Mitterand - trovammo le grandi porte serrate e Giordano commentò: «Che popò di inculata che avemo preso”, suscitando il commento di una ragazza accanto a noi che si rivolse al compagno con un sorriso malizioso, commentando in italiano: «Hai visto caro, non siamo soli». E Giordano chiosò: «Che popò di figura di merda che avemo fatto». E io di rimando: «Che hai fatto».

 

Un paio di giorni dopo Giordano voleva andare al mercato delle pulci e siccome io non ci volevo andare mi pagò il biglietto del Metrò. Quando arrivammo era chiuso! Deserto. Solo un flic a un centinaio di metri da noi che sorvegliava una specie di entrata senza neanche cancello. Giordano mi disse «Vado a chiedere», io gli consigliai, «Meglio di no, che non sai il francese e questi so’ cattivi». Ma lui andò verso il gendarme e io imprudentemente lo seguii da vicino insieme a un brutto presentimento. Giordano articolò una domanda in quel che credeva essere francese e il flic ci guardò come il vigile urbano guardava Totò e Peppino in piazza del Duomo a Milano. Intanto sfilava il manganello. Io, per cercare di rimediare l’irreparabile, gli chiesi nel mio francese migliore se il mercato delle pulci doveva ancora aprire, lui mi guardò e mi chiese: «Italien?», «Oui!», risposi io con un sorriso speranzoso. E il flic mi diede una randellata tra la spalla e il collo che io attutii solo perché stavo già scappando. Dietro di me c’era Giordano inseguito dal flic col manganello in mano. Io allora ero un atleta, Giordano pesava almeno 50 chili più di me e forse non correva da qualche anno – se mai aveva corso più di qualche metro – eppure me lo vidi sfrecciare davanti urlando: «Avevi ragione, so’ cattivi» e si tuffò nell’entrata del Metrò dandomi qualche metro di distacco.

 

Poi arrivò la domenica della Paris-Versailles, la partenza era dalla Tour Eiffel e quindi, nonostante a Parigi l’autunno fosse già arrivato, ci andai in canottiera e pantaloncini, con l’accordo che Giordano mi avrebbe portato almeno una tuta da ginnastica all’arrivo a Versailles. Addosso non avevo nulla, nemmeno i documenti e i telefonini erano ancora fantascienza. Eravamo un’infinità mai vista. Io avevo un numero sopra il 10.000 e, con mia stessa sorpresa, arrivai 80esimo tra i non professionisti. Mentre aspettavo felice e infreddolito un premio che credevo avrei conservato per sempre e che invece non ho idea di quale fine abbia fatto, aspettavo Giordano con la tuta e qualche conforto alimentare, ma passarono i minuti e le ore e del Taccioli non si vedeva nemmeno l’ingombrante ombra. Allora mi decisi a scavalcare senza biglietto un altro tornello di un Metrò e, livido di freddo e in canottiera, ritornai al Gros Caillou, dove trovai Giordano appoggiato al bancone di ingresso che faceva la corte alla portiera con gli occhi dolci, cercando di sedurla con una lingua dove mischiava francese, inglese e portoferraiese.

 

Di fronte alle mie proteste per avermi abbandonato al freddo e al gelo mi rispose che si era svegliato tardi, quando ormai era inutile venire a Versailles e che la ragazza tatuata era parecchio meglio di me. «Come sei arrivato», mi chiese. «80esimo», risposi. «Che figura di merda», sentenziò. «Eravamo più di 10.000», risposi. «E te ti sei partito dall’Elba, ti sei svegliato così presto per arriva’ 80esimo e pati’ tutto sto freddo?» Non riuscii a dargli torto e preferii andarmi a fare una doccia calda mente Giordano continuava a fare il pesce lesso con l’ebrea con gli occhi dolci.

 

Gli ultimi giorni a Parigi li passammo al Centre Pompidou e nei dintorni ad annoiarci e a fare cose strane, a volte inconfessabili. Io avevo finito i soldi e a volte Giordano spariva per mangiarsi qualcosa in pace senza che io lo guardassi con la bava alla bocca come un cane affamato. Ma una volta volle che lo ripagassi di un “prestito” che mi aveva fatto per un panino rubando da una bancarella una scatoletta tipo quella per le sardine, con la chiavetta, e con su scritto “Air de Paris”. «Guarda un po’ – disse Giordano – questi vendono anche l’aria. Io non gliela pago, prendimela!». Lo feci.

 

Con Giordano ci siamo persi presto, poco dopo quel viaggio sconclusionato e bellissimo a Parigi, ci siamo ritrovati raramente, scambiandoci lontani ricordi e la passione rimasta per la politica che ci piaceva sempre meno. Scoprendo vicinanze e distanze e che lui non si era dimenticato di me e che mi seguiva da lontano come fece alla Paris-Versailles, mentre in me era rimasto l’affetto per quel ragazzo flemmatico e intelligente, geniale come le sue battute, un divoratore di libri che una volta corse come Speedy Gonzales in una periferia di Parigi.

 

Forse Giordano quella scatoletta di latta e la scritta svolazzante che rubai su sua ordinazione al Centre Pompidou l’avrà salvata in qualche scatola polverosa dove teneva i ricordi della gioventù. Oppure l’ha aperta un giorno di pioggia e nostalgia per respirare l’aria di una Parigi che non c’è più, con il Gros Caillou dei poveri e la portiera con gli occhi dolci.

 

Umberto Mazzantini

 

air de paris

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Ultima modifica il Venerdì, 01 Agosto 2025 16:03

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