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Ragionamento su come è, e come dovrebbe essere, il "Pianeta Carcere"

Scritto da  Enzo Sossi - operatore penitenziario Mercoledì, 02 Dicembre 2020 11:24

 

Sono passati 130anni da quando il Forte spagnolo di Porto Azzurro prima Porto Longone è stato trasformato in carcere, nel lontano 1890. Gli elbani sono abituati a convivere e molti suoi figli vi lavorano, vi hanno lavorato ed altri vi lavoreranno.


La pandemia che ha colpito il Paese, ha posto in secondo piano, tra l’altro, anche la situazione delle carceri. Inopportuno parlarne visto quanto accade quotidianamente con centinaia di morti.


Ma, come si dice, il mondo va avanti non si ferma, la pandemia finirà e bisogna fare dei ragionamenti sulla società che vogliamo nel post pandemia, una società che ci auguriamo sia migliore, più attenta, più giusta, più equa.


Appare lapalissiano che il sistema carcere ha fallito, che la volontà dei padri costituenti non è stata realizzata (art. 27 della Costituzione). Un dato su tutti, la recidiva in Italia è pari al 70percento, su 1000 detenuti che escono 700 fanno rientro in carcere, una percentuale bulgara che non fa onore all’Italia. In molti casi le carceri sono fatiscenti, sovraffollate, le stanze detentive non consentono al condannato di avere un proprio sufficiente spazio fisico e mentale, il carcere viene percepito come afflittivo non rieducativo, mancanza di lavoro, mancanza dell’affettività, il regno dell’ozio…


Sembra che nessuno creda più all’art. 27 della Costituzione, secondo il quale la pena deve tendere alla riabilitazione e al reinserimento del condannato. “Buttare la chiave” “Marcire in galera”, sono espressioni che risuonano troppo spesso e troppo impunemente per non stroncare all’origine il senso stesso di quell’articolo.


Sono diversi anni che si discute e si dibatte sull’opportunità di una riforma delle carceri che coinvolga il personale dirigente, quello amministrativo e la Polizia penitenziaria. Che deve tenere conto del profondo cambiamento della popolazione detenuta avvenuto in questi ultimi anni. Le persone che entrano in carcere sono, sempre più, soggetti fragili, con alle spalle anni di dipendenza da alcol, da droghe o con storie laceranti di migrazione. Sono in continuo aumento detenuti con disturbi psichiatrici, di difficilissima gestione. Le ultime rivolte scoppiate nelle carceri ha visto tra i protagonisti, detenuti tossicodipendenti, alcoldipendenti o fortemente disturbati, che più facilmente sono manipolabili.


Siamo uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea, con Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Una riforma delle carceri deve avere come obiettivo un carcere europeo dove alla base vi siano le Regole Penitenziarie Europee – intendere il servizio penitenziario come servizio pubblico – avere come bussola il punto 71, che dice: “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”.


Un carcere europeo le cui regole non prevedono la presenza della Polizia penitenziaria all’interno degli istituti, non prevedono ai vertici dell’amministrazione penitenziaria dei magistrati, anche se fuori ruolo.


Le carceri non devono essere governate dal ministero della Giustizia. Le carceri nella loro gestione ed organizzazione, vista la loro delicatezza e complessità, devono essere poste presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.


Si deve rafforzare la volontà espressa dai padri costituenti nell’articolato costituzionale, garantendo la dignità del condannato di qualsiasi reato, la sua rieducazione.


La rieducazione, un diritto per il condannato ed un obbligo per lo Stato affinché il tempo della pena non venga sprecato, non si riduca ad un mero contare i giorni, ma si traduca in recupero sociale del condannato.


La rieducazione non come imposizione, ma rispetto del principio di libero arbitrio, di autodeterminazione della persona detenuta, che paga il prezzo della libertà per il male causato, ma che ha il diritto di ricevere una cura sociale, una proposta trattamentale che risponda a criteri di qualità, che deve fornire una effettiva sicurezza per la società.


Un complesso meccanismo, che contempla pure l’eventuale rifiuto del detenuto, ove esprima la volontà di non riconciliarsi con la collettività e con la vittima, consapevole che il suo rifiuto o la falsa adesione all’offerta trattamentale non saranno prive di conseguenze sfavorevoli che si aggiungono alla privazione della libertà.


Il compito del ministero della Giustizia è quello di assicurare un sistema giudiziario ordinato, puntuale, efficiente, con processi celebrati regolarmente celermente, che solo per questo assorbe ogni risorsa professionale disponibile e non distrarla in altro come il penitenziario.


Serve una separazione tra chi ha giudicato e chi gestisce il carcere. Negli ultimi 40anni al vertice dell’amministrazione penitenziaria sono stati nominati esclusivamente magistrati, i quali alternandosi, non sono riusciti a risolvere i problemi che conosciamo delle carceri a dimostrazione di un fallimento e di cattiva amministrazione.


Fatte salve alcune eccezioni, al periodo di Nicolò Amato, la sensazione dominante tra gli operatori penitenziari è stata che quanti governassero l’amministrazione penitenziaria non riuscissero ad avere una visione sistemica del pianeta carcere. I decenni di insuccessi hanno dimostrato la poca attitudine dei vertici provenienti dalla magistratura, in tema di organizzazione del lavoro, nel mantenimento delle relazioni sindacali, nella concreta e non teorica conoscenza delle carceri.


Tutto questo lo si è vissuto all’interno del mondo del lavoro penitenziario, come non valorizzazione delle professionalità presenti, costituito da competenze multidisciplinari, che non si accontentavano di conoscenze esclusivamente in materie giuridiche, ma che comprendevano anche quelle della sociologia, della psicologia, della criminologia, della comunicazione, delle scienze sociali, dell’architettura, della filosofia, della gestione amministrativo-contabile, della sorveglianza, della sicurezza dei lavoratori e del diritto del lavoro…


Il pianeta carcere che è un mondo vivo, palpitante, una comunità di professionisti pubblici e del privato sociale, impegnati nel produrre sicurezza, recupero e pace sociale, ha bisogno di vertici con competenze, esperienze nate e formatesi sul campo e non fuori le mura del carcere.


Il carcere non deve essere un luogo di estensione delle aule di giustizia, degli uffici delle procure, delle indagini continue e del processo infinito, ma altro, come lo prevede la Costituzione: il territorio della rieducazione, dove il condannato è costretto a cedere, per il tempo della carcerazione, la sua libertà.


Infine, ma non per ultimo la Polizia penitenziaria, a cui in ragione delle Regole Penitenziarie Europee vanno attribuite competenze esterne agli istituti penitenziari, dove potranno intervenire solo in caso di necessità derivanti da rischi per l’ordine e la sicurezza.


Competenze attinenti l’esecuzione penale esterna, la gestione dei collaboratori di giustizia, la ricerca di evasi, la sicurezza dei magistrati e degli uffici giudiziari. Nelle sezioni detentive deve prestare servizio soltanto personale civile come educatori, psicologi, infermieri, medici, criminologi…


In sostanza la Polizia penitenziaria, solo come esempio, potrebbe diventare come gli U.S. Marshall statunitensi, con compiti ampi sul territorio e limitati all’ordine e la sicurezza nelle carceri. Passare al ministero degli Interni.


La riforma del 1990 è rimasta incompiuta, risolvendosi nella mera estensione del compito di traduzione dei detenuti (precedentemente svolto dall’Arma dei Carabinieri), che è rimasta in sostanza una polizia del carcere, nonostante la smilitarizzazione e l’adozione di un ordinamento civile.


Nella Polizia penitenziaria opera un personale qualificato e reclutato tra le migliori risorse umane del Paese, dotato di un ruolo direttivo e dirigente proprio, si trova oggi a trent’anni dalla riforma confinato alla custodia del carcere, relegato in una posizione di secondo piano tra le forze di polizia.


Inutile non fare presente del senso di disagio sempre più palese dei poliziotti penitenziari, che si sentono sempre più soli e abbandonati da vertici, a loro parere apatici e disinteressati, al loro benessere. Vertici che non indossano l’uniforme e non fanno parte della Polizia penitenziaria.


Le carceri del XXI secolo devono rappresentare la dicotomia tra il prima ed il post pandemia da Covid-19.


Enzo Sossi
operatore penitenziario

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