Il pensiero che oggi circola con troppa disinvoltura è che la telecardiologia possa risolvere, da sola, il problema dell’assistenza cardiologica sull’Isola d’Elba. È un’idea soprattutto di “oltre canale” che ha un fascino immediato, perché si basa su un equivoco rassicurante: confondere la diagnosi con la cura. La prima può essere a distanza, la seconda no. E proprio da questa confusione nasce un rischio che pochi hanno il coraggio di sottolineare: quello di affidare una materia delicatissima come la cardiologia d’urgenza a strumenti che, per quanto moderni, non possono sostituire né l’occhio clinico né la mano operativa.
Non basta posizionare una sonda
La telecardiologia, con i suoi schermi nitidi e i suoi macchinari scintillanti, sembra suggerire un’idea di modernità immediata. Si guarda un’immagine a chilometri di distanza, si fa una diagnosi veloce, ottenendo un parere specialistico. Eppure, quando si entra nel merito clinico, il quadro cambia profondamente. Perché ad esempio, l’ecocardiogramma che è strumento principe della diagnosi cardiologica, non è un gesto tecnico, ma un atto complesso che richiede esperienza, formazione avanzata, sensibilità maturata in anni di pratica specialistica. Non basta posizionare una sonda: occorre sapere cosa guardare da quale angolazione, con quale inclinazione, in quali tempi del ciclo cardiaco.
Il cardiologo remoto può essere un luminare
Un operatore non specializzato può facilmente generare immagini inutilizzabili, incomplete o ingannevoli. E in quel momento, la telediagnosi non è semplicemente meno efficace: diventa pericolosa. Il cardiologo remoto può essere un luminare, ma se le immagini che riceve sono acquisite male, rimane prigioniero di ciò che gli viene mostrato. È come chiedere a un grande fotografo di valutare un paesaggio attraverso una lente appannata. L’errore non sarà suo, ma la conseguenza sì. E quando la diagnosi deriva da un’immagine imperfetta, il rischio non è accademico: sono infarti non riconosciuti, tamponamenti scambiati per scompensi, versamenti che non si vedono, valvole che cedono senza apparire.
C’è un'altra realtà
Ai due lati dello schermo si consuma così un paradosso doloroso: l’operatore locale teme di sbagliare ciò che non è preparato a eseguire; il cardiologo remoto teme di interpretare immagini che non può controllare; il paziente, nel mezzo, spera che la tecnologia supplisca ciò che solo la presenza umana può garantire. E c’è un’altra verità che nessuna videoconferenza potrà mai correggere: la clinica non è fatta solo di immagini. È fatta di volti, di respiro affannato, di sudorazione improvvisa, di una postura che tradisce un dolore, di vene che si ingorgano, di uno sguardo che perde smalto. Tutti segnali che un medico presente accanto al letto coglie con immediatezza. Il cardiologo remoto no. Egli vede un cuore, non vede il paziente, vede i numeri ma non vede l’insieme; osserva dati ma non percepisce quella “coerenza clinica” che spesso fa la differenza tra un sospetto e una certezza. La telediagnosi trasformando il corpo in un insieme di parametri, perde quell’unità clinica che solo la presenza fisica restituisce. E ogni dettaglio che sfugge è una possibilità diagnostica che si indebolisce.
Il lusso del tempo
Nemmeno la rapidità, spesso indicata come il grande vantaggio della telemedicina, è ciò che sembra. Si immagina un sistema immediato, ma la realtà è diversa: occorre contattare il cardiologo, avviare il collegamento, trasmettere le immagini, attendere il consulto prima di ricevere il responso. Si tratta di passaggi invisibili sulla carta, ma che nella pratica generano minuti preziosi. E il cuore, nei momenti critici, non dispone del lusso del tempo. Un infarto evolve rapidamente, un’aritmia instabile si aggrava in pochi secondi, un edema polmonare cambia volto in un respiro. La telecardiologia introduce inevitabilmente un ritardo decisionale, proprio là dove la decisione deve essere immediata. A questi limiti strutturali si aggiunge la fragilità della tecnologia, un aspetto che spesso si ignora perché è scomodo riconoscerlo. Infatti, internet può rallentare, una webcam può fuoriuscire dall’inquadratura, un software può bloccarsi, un server può non rispondere. E quando la vita di un paziente dipende dalla qualità di un collegamento, il sistema diventa vulnerabile non per colpa dei medici, ma per la natura stessa degli strumenti utilizzati. Una sala operatoria non si ferma per un segnale debole; una trasmissione video sì.
Il falso senso della sicurezza
C’è poi il tema, delicatissimo, della responsabilità clinica. In un sistema remoto, chi prende davvero la decisione? L’operatore locale che esegue l’esame, ma non può interpretarlo appieno? Il cardiologo remoto che interpreta, ma non vede il paziente? O il medico che deve decidere se attivare un trasferimento rischioso? Ecco che allora la decisione si distribuisce tra di loro, come in una serie di matriosche, la prontezza decisionale si indebolisce e si trasforma, la prudenza diventa esitazione e l’ esitazione in cardiologia, diviene un varco in cui il rischio si insinua. Ma forse il problema più grave non è clinico, bensì culturale. La telecardiologia se presentata come soluzione autonoma, genera un falso senso di sicurezza, una sorta di narrazione istituzionale che rassicura senza proteggere. Si potrebbe dire: “L’Isola è coperta”, quando in realtà l’Isola vede meglio, ma non cura meglio. L’immagine arriva, ma la mano che dovrebbe intervenire non c’è.
Un reparto cardiologico operativo
È un’elegante illusione di modernità che rischia di ritardare, o addirittura di impedire, la costruzione di ciò che davvero serve: un reparto cardiologico operativo, con la capacità di agire, non solo di osservare. E la conclusione, alla fine, è semplice come la verità clinica da cui siamo partiti: la diagnosi è uno strumento di conoscenza, non un atto terapeutico. La telecardiologia migliora la capacità di vedere, ma non quella di intervenire. E quando il cuore si ammala, ciò che salva la vita non è la nitidezza dell’immagine, ma la tempestività della cura. L’isola non ha bisogno di una finestra remota su ciò che accade: ha bisogno di una porta d’ingresso immediata alla terapia. Finché questa porta resterà oltre il mare, nessun monitor, per quanto brillante, potrà mai colmare la distanza tra la diagnosi e la salvezza.
Alberto Zei






