Riceviamo e pubblichiamo
Parafrasando il titolo di un libro “cult” degli anni ’70 di Lidia Ravera, ritorno sul tema, ormai annoso e mai risolto, di detti ungulati all’Elba cercando, anche in modo semiserio, di affrontare il problema in modo “razionale” per quanto si possa parlare in tale modo di questi tempi.
I cinghiali non hanno le ali e non sanno nuotare a lungo, quindi all’Elba, che è un’isola, qualcuno ce li ha portati (come direbbe Lapalisse); infatti, per quello che mi ricordo sin dagli anni ’50, non ho mai visto sia essi, sia le loro tracce.
Può darsi che alla lunga ci facciano credere che volino come le miti e caparbie bestie che ormai non si vedono più all’Elba!
Ritornando al serio, sono andato a vedere le norme che l’Inghilterra (un’isola per sua fortuna) adotta per l’importazione di animali sulla propria terra.
Norme severe e controlli stringenti. Io stesso mi ricordo di averne lette alcune mentre viaggiavo da Calais a Dover fine anni ’70, ed ora sono ancora più severe. E’ mai possibile che da noi non esista niente in merito? Chi ha portato i primi cinghiali non ha mai
dichiarato nulla? Controlli tempestivi sul territorio non sono mai stati fatti?
In tale caso si tratta di azioni passibili di reato e chi le ha fatte andrebbe perseguito penalmente.
Altro caso è se tale introduzione è stata fatta con l’autorizzazione di chi è deputato alla salvaguardia del territorio. In questo secondo caso la responsabilità è, ancora di grado maggiore, di tali personaggi che dovrebbero avere una cultura e formazione adatta ad affrontare le conseguenze.
Tali personaggi avrebbero dovuto essere a conoscenza delle specie lasciate libere di vagare per i boschi e macchie, di controllarne la moltiplicazione e, quindi, di limitarne il numero. Ho letto che i cinghiali lanciati sul territorio dagli anni ’70 sono “Sus scrofa” centroeuropei ben più prolifici del nostro maremmano e che in un anno possono più che raddoppiare di numero.
Provate a fare un piccolo calcolo che ormai si fa anche alle scuole medie e vedrete che all’inizio il fenomeno è controllabile con adeguata sorveglianza, dopo non si può più controllare, ma la limitazione è data dalla possibilità di cibarsi!
Mi ricordo che all’inizio di questo nuovo millennio all’Elba chi uccideva un cinghiale per invasione di orti o frutteti, veniva denunciato per aver soppresso un animale considerato specie protetta.
Così, passando gli anni senza un decente controllo del fenomeno, siamo arrivati alla situazione attuale!
Io stesso, vari anni fa, dopo che un cinghiale mi aveva rotto un ramo di un pero che era vissuto indenne per non so quanto tempo, telefonai più volte alla polizia venatoria per porre fine alle scorribande degli ungulati. Dopo quasi 3 settimane, durante le quali fui consigliato di foraggiare giornalmente le bestie in un determinato luogo, vennero due guardie che abbatterono un cinghiale femmina di media taglia che servì, poi, per una sagra di un Paese vicino, oltre una piccola parte data a me. Poi più niente. Negli anni successivi le incursioni si sono ripetute come le mie telefonate. La risposta era che le guardie erano poche come anche le gabbie in loro possesso. Così siamo arrivati ai nostri giorni con campi e strade sterrate (per evitare consumo di suolo) piene di buche ed impraticabili se ci si allontana dal territorio per due o tre mesi.
Mia moglie, con assai più senso pratico di me, mi ha sollecitato a fare un piccolo calcolo usufruendo di dati reperiti on line. Lo riassumo nello schema sottostante.
Il cinghiale dal bosco alla tavola o al supermercato
Peso medio animale = 60 kg
Resa in carne = 25 kg
Tempo macellazione = 3h
Retribuzione macellaio per operazione = 50 euro
Trasporto animale = 50 euro
Scatola ragù di cinghiale (400g) = 10 euro
n. scatole a cinghiale = 75
n. piatti pappardelle al cinghiale (per 1 cinghiale) = 250
Tali calcoli sono, penso, per difetto.
Naturalmente da conteggiare tempo ed energia per cucinare, costi industriali per inscatolamento, tasse….
Una base per meditare!
Giampaolo Zecchini






