Si legge con autentico piacere su Elbareport di qualche giorno fa, la rievocazione storica delle fortificazioni di Portoferraio del Prof. Marcello Camici, con particolare riferimento alla Fortezza di Santa Fine, di cui ha descritto con precisione e passione l’originaria stratificazione funzionale delle varie altezze. Si tratta della logica difensiva impressa in ogni vano, passaggio e risega muraria. Infatti. ogni struttura, ogni dislivello, ogni rientranza portava con sé un nome carico di significato e una destinazione precisa, frutto di una razionalità militare che imponeva, in caso d’assedio, l’immediata comprensione per occupare gli spazi indicati da uomini e mezzi a difesa della città.
Il Professore, con giusta curiosità, lamenta però alcune lacune nella conoscenza delle funzionalità interne della Fortezza di Santa Fine, soprattutto per quanto riguarda quella porzione che marca l’estremo limite nordoccidentale della cinta urbana: un punto critico, poiché segna il raccordo – tutt’altro che secondario – fra le difese elevate e il fosso del Ponticello, che un tempo costituiva una barriera acquatica di primaria importanza.
La segretezza
Per comprendere appieno la complessità di questo nodo strategico, è necessario scendere – anche fisicamente – all’interno del terrapieno della fortezza, laddove, sin dai primi sondaggi visivi, emergono tracciati architettonici singolari: gallerie cieche e intercomunicanti, sviluppate non solo in senso orizzontale, ma anche verticale, secondo un sistema che rispondeva più alla logica dell’imprevisto che a una semplice razionalità planimetrica. Questi corridoi, talvolta larghi abbastanza da contenere due uomini in marcia, rivelano una rete nascosta per movimenti rapidi e invisibili, adatta tanto all’aggiramento di un nemico, quanto alla comunicazione interna tra reparti dislocati. Ma è proprio in questi meandri, così lontani dalla luce del giorno e dal clamore delle artiglierie, che si consumavano – anche in tempi ben più recenti – piccole scene da leggenda o da burla, nate dalla suggestione e dalla penombra.
Le gallerie
A livello del terreno, come mostrato nella figura stilizzata allegata all’articolo, si distingue chiaramente la porta d’ingresso della fortezza, situata all’incirca a metà del corpo murario che fronteggia la spiaggia delle Ghiaie. Da quel punto si dipartiva un sistema di tre gallerie principali, il cui sviluppo sotterraneo racconta molto dell’ingegnosità militare con cui fu concepita l’intera struttura. La prima di queste gallerie, imboccata frontalmente e percorsa per pochi metri, si piegava verso destra e si estendeva per circa 10 o 15 metri, fino a interrompersi bruscamente contro una zona franata: un tratto ora cieco, ma che un tempo proseguiva oltre, verso altri passaggi oggi sepolti sotto il peso del tempo e delle macerie.
La seconda galleria si apriva invece verso sinistra, seguendo una direttrice più lunga e decisa, che conduceva fino alla punta del Gronchetto. Il suo termine era segnato da una sorta di cupola sotterranea, una camera semi-sferica con un’apertura strategica rivolta verso la spiaggia delle Ghiaie. Durante la Seconda Guerra Mondiale, questa apertura venne adattata a postazione militare di tiro, riconvertendo un’antica struttura difensiva in una moderna casamatta.
Ma è lungo questo ramo sinistro della galleria che si presenta un elemento tanto curioso quanto affascinante: a circa metà percorso, un brusco angolo retto introduce un ramo secondario, una deviazione che si protende verso il mare, sul lato opposto della punta, proprio di fronte all’isolotto dello Scoglietto. Anche qui, al termine del cunicolo, si ritrova una cupola simile, trasformata in postazione militare.
“La porta di Nettuno”
Prima, però, di raggiungere la fine di questo ramo, vi è un punto singolare, quasi perturbante: una voragine sostanzialmente circolare, larga poco più di un metro, chiamata la “Porta di Nettuno “che si apre nel pavimento della galleria e scende a picco verso il livello del mare sottostante. Su questo particolare merita soffermarsi, poiché quando il provenzale o ancor più il libeccio agitano le acque, le onde si incanalano con violenza attraverso fenditure più basse della scogliera, insinuandosi nel basamento della fortezza. Da qui l’acqua risale con forza per effetto della pressione ondosa, trasformando la cavità in una sorta di geyser, ossia, in un soffione naturale vero e proprio, capace di generare un boato cavernoso, simile ad un ruggito, fino a lanciare forti spruzzi di schiuma bianca all’ interno della galleria. Il fragore, amplificato dalle pareti umide e risonanti, colpiva con violenza le orecchie e i nervi degli incauti visitatori, e bastava da solo a scatenare il panico negli animi meno temprati.
Il terrore
Ed è proprio da qui che nascevano, talvolta, scherzi memorabili orchestrati ai danni degli amici ignari... I ragazzi che ignoravano l’esistenza di quella voragine gorgogliante, attratti da una semplice passeggiata sotterranea, venivano spesso introdotti in quella porzione di galleria da amici più smaliziati e complici, ansiosi di vederli sussultare. Bastava il fragore improvviso di uno sbuffo marino, il riverbero assordante di quell’urlo liquido che pareva provenire dalle viscere stesse della fortezza, per vederli indietreggiare impalliditi, talvolta urlando terrorizzati, nel fragore delle risate di chi, conoscendo l’effetto, si era già appostato al riparo per godersi la scena. Quelle fughe concitate, fatte di urla strozzate e corse maldestre nel tunnel semibuio, sono entrate a far parte della memoria collettiva di chi ha frequentato da ragazzo quegli spazi dimenticati, testimoni silenziosi di una storia che mescolava il gioco all’eco della guerra.
La ciminiera
Ma lasciando alle spalle quel tratto di galleria e tornando all’ingresso ridotto ora in una finestrella rasoterra, chi proseguiva l’esplorazione verso l’interno scopriva un’altra struttura degna di nota: una singolare possibilità di risalita in verticale, scavata nel cuore stesso del terrapieno. Si trattava di un condotto cilindrico, simile a una ciminiera, con un diametro di circa un metro e mezzo. All’interno, saldamente ancorati alla muratura, si susseguivano dei pioli metallici a staffa, infissi direttamente nella parete. Era una scala verticale a pioli incassati, tipica delle strutture militari d’emergenza, che permetteva una rapida risalita alla sommità senza occupare spazio utile nel piano di calpestio.
La scalata richiedeva attenzione: ogni piolo era una promessa di risalita, ma anche un appiglio nel vuoto.
La casermetta
Al termine della faticosa ascesa, si sbucava all’interno di una casermetta oggi scomparsa. L’edificio, di forma rettangolare e di circa 60-70 metri quadrati, ospitava probabilmente un presidio o un punto di osservazione. Sulla parete rivolta verso la spiaggia delle Ghiaie si apriva una finestra piuttosto ampia, che garantiva luce e visuale: una vedetta discreta, affacciata su quel tratto di mare tanto suggestivo quanto strategico.
Quella costruzione, dal viale delle Ghiaie conferiva un carattere dominante e inconfondibile al profilo della Fortezza, completando con la sua semplicità severa, il disegno architettonico di un'opera pensata invano, per resistere al tempo e agli uomini. Così stavano le cose.
Pensando di aver risposto ai quesiti del Prof Camici, attendiamo da lui il proseguimento delle sue storiche descrizioni dell’ uso militare di queste ultime fortificazioni lorenesi così bene integrate con quelle medicee della vecchia Cosmopoli.
Alberto Zei