C’è a Portoferraio un lungo e angusto percorso subacqueo, che dal fondo del mare antistante la fortezza di Santa Fine si inoltra all’ interno di questa. È un cammino silenzioso che si snoda in un corridoio d’acqua inizialmente verde, incastonato nella roccia viva, che pare custodire da secoli i propri segreti.
Le pareti, levigate in alcuni tratti e frastagliate in altri, rivelano l’erosione secolare delle correnti: in certi punti la roccia è talmente liscia che pare scivolosa, in altri sporge con spigoli vivi che impongono cautela e attenzione.
Lungo il percorso - Dopo una quindicina di metri il cunicolo comincia a salire lievemente. Si nota un cambiamento nel suono: non più il silenzio ovattato della prima parte, ma un lontano rimbombo, come un respiro profondo che pulsa all’interno della roccia. È quà che il passaggio si allarga e si intravede un chiarore diffuso risalendo a pelo d’acqua: è il punto in cui procede in apnea può finalmente sollevare la testa e riempire i polmoni.
È proprio qui che dal livello dell’ acqua si trova l’imbocco basso di quell’ apertura che risale all’ interno del corridoio al piano di sopra, chiamata la “Porta di Nettuno”. La denominazione non è casuale: quando il mare è agitato, il cunicolo diventa una camera di compressione naturale. Le onde, incanalandosi con violenza, creano un effetto pistone che spinge tonnellate d’acqua a una velocità impressionante. Allora si odono boati sordi, simili a esplosioni soffocate, e improvvisi getti di schiuma bianca esplodono dentro la galleria superiore nord, quella orientata verso lo Scoglietto.
La forza della natura
È un fenomeno affascinante per la sua forza idraulica, ma che, in certe condizioni, l’idea di trovarsi lì dentro suscita un disagio istintivo. Infatti, se una massa d’acqua di quella potenza dovesse irrompere all’improvviso, le condizioni diverrebbero drammatiche. Questo talvolta accade. Ad esempio, le onde dentro il cunicolo subacqueo dove l’ estate scorsa, Carlo Gasparri si accingeva ad entrare erano prodotte dalla nave gialla ancora in servizio. La situazione pericolosa che si è improvvisamente creata è stata descritta in un articolo su Elbareport della scorsa estate (Esplorazione subacquea 11/6/25.
La lunga via - Continuando il percorso, il cunicolo si incurva verso destra, restringendosi di nuovo. Qui l’avanzata diventa più lenta e faticosa: le pareti sono vicine, non più di ottanta centimetri di spazio in alcuni tratti, e occorre strisciare con movimenti misurati per non incastrarsi. L’acqua si fa più fredda e scura e il fascio della torcia si perde nella densità del buio. È in questi punti che si avverte un sottile senso di oppressione mentale: il silenzio è totale, interrotto solo dal ritmo del proprio respiro, amplificato dal boccaglio come un rintocco cadenzato. In alcuni momenti si ha l’impressione o meglio, l’illusione che il cunicolo stesso “respiri”, come se vi fosse qualcosa di vivo attorno.
Continuando a nuotare nel buio dopo questa breve sosta, ecco che progressivamente, il passaggio si allarga. Le pareti, prima soffocanti, si allontanano e la roccia forma una sorta di imbuto capovolto; poi dopo un breve tratto la torcia intravede la superfice dell’ acqua. Ecco finalmente la meta. Nuovo vigore dà slancio vitale a chi è ormai quasi arrivato anche se qualche sorpresa di troppo si affaccia sempre alla mente come ulteriore difficoltà da affrontare.
Il laghetto
Ora la testa affiora sopra l’acqua: finalmente si respira. La cavità è quasi regolare: una cupola che sembra naturale ricorda la sagoma di un iglù, come scolpito nella pietra viva. Qui la volta è alta quasi tre metri e usciti a terra attraverso una minuscola spiaggetta, l’acqua diventa immobile, come se il respiro del mare si fermasse. Al centro della camera si trova il laghetto, un minuscolo bacino largo non più di quattro metri. La luce naturale non vi penetra mai, e il buio è così compatto da sembrare una sostanza solida.
Di solito la torcia illumina solo un cerchio ristretto, lasciando il resto della cavità in un’oscurità impenetrabile. Sulla superficie immobile, ogni fascio di luce crea riflessi che si distorcono, come se qualcosa, appena sotto lo specchio d’acqua, si muovesse lentamente.
Le apparizioni
È proprio in quell’attimo, quando il fascio luminoso incontra l’acqua con una certa inclinazione, che accade qualcosa di inatteso e inquietante. Come se il lago stesso avesse una memoria segreta, emergono figure indistinte, evanescenti, quasi volti imprigionati nel riflesso. Appaiono facce umane deformate, talvolta grottesche, altre volte terribilmente familiari. E fra quei volti, confuso fra gli altri, si intravede anche il proprio, ma non come un normale riflesso speculare. È un volto invertito, visto come se un estraneo ci osservasse e ci restituisse un’immagine di noi stessi che non conoscevamo o che non volevamo vedere in cui la destra rimane destra , così la sinistra.
È in questo momento, quando ci si ferma e si spegne per un istante la torcia per bloccare queste visioni che il senso di disagio si fa più intenso. In quel silenzio irreale, la mente sembra voler riempire il vuoto con presenze che non ci sono. E quando la luce torna a colpire l’acqua… a volte, per un attimo, si avverte la netta impressione di non essere soli là dentro.
Quella inaspettata appartenenza
La visione irreale delle forme evanescenti che emergono dal fondo verso l’ osservatore, secondo certe tradizioni esoteriche, non sono un semplice gioco di rifrazioni. È un’esperienza antica, quasi un rituale dell’anima. Si dice infatti, che nelle acque profonde della scura valle, considerate da sempre dimora dell’ anima, chi si avventura a cercarla con sincerità, trova non un’immagine idealizzata, ma il vero volto della propria essenza. Le pallide apparizioni che si manifestano nel laghetto sotterraneo sembrano materializzare ciò che la psicologia ha tentato di spiegare. Nella letteratura psichica e in particolare negli studi iniziati da Carl Gustav Jung, tuttora continuati, questo fenomeno è interpretato come l’incontro con la propria “ombra” interiore, quella parte non certo migliore che teniamo nascosta anche da noi stessi perché non la ammettiamo per non affrontarla. Per questo la proiettiamo sugli altri che non ci condividono e non ci comprendono.
La prova Osservare a lungo quell’immagine deforme e inquietante significa affrontare il giudizio più implacabile: il proprio visto da un'altra dimensione. Molti distolgono subito lo sguardo, incapaci di sostenere ciò che vedono; altri fuggono, preferendo attribuire a chi li circonda i difetti e le colpe che, in realtà, appartengono a loro stessi. Ma chi riesce a resistere, chi accetta di sostenere lo sguardo di quell’ immagine apparentemente estranea e deformata eppure così intima, compie in quei pochi istanti un passo straordinario: percorre in un attimo più della metà del cammino che lo separa dalla conoscenza profonda della propria essenza. È un’esperienza che dura un soffio, ma che può valere un’intera vita di inutile introspezione.
Dubbi e certezze
A questo punto, per molti, subentra lentamente un senso di angoscia. È un sentimento che nasce quasi impercettibile, insinuandosi nella mente come un sussurro, ma che cresce via via, alimentato da ciò che gli occhi vedono e l’immaginazione amplifica. Ritornando al laghetto, sulla parete della grotta che lo contiene , si distingue una porta murata, una vecchia apertura grossolanamente chiusa con pietre e malta, sulla quale si notano segni di picconate. Quelle scalfitture, che sembrano incisioni di disperazione, aggiungono un elemento di inquietudine: chi, un tempo, ha tentato di uscire da lì? E perché non ci è riuscito? La mente, suggestionata dal silenzio soffocante del luogo, elabora la propria risposta: se qualcuno ha picconato con tanta furia, allora dev’essere stato prigioniero, e quella fuga fallita è rimasta impressa come un monito per chiunque si trovi ora in quella stessa stanza d’acqua e di roccia. Anche se più verosimilmente quelle picconate sono di qualcuno intenzionato a scoprire cosa si nasconde dietro quella porta murata.
Chi rimane e chi fugge
La sensazione di trovarsi intrappolati, anche se priva di fondamento razionale, cresce con rapidità. L’aria sembra più pesante, la grotta più stretta, il buio più fitto. Così, ciò che fino a un attimo prima era soltanto curiosità diventa urgenza, quasi panico: l’unico pensiero è uscire, tornare alla luce, riconquistare la sicurezza del mondo esterno. Eppure, la stessa paura che spinge a fuggire trattiene, come se un istinto primordiale impedisse di affrontare di nuovo il lungo corridoio nero da cui si è arrivati. L’immaginazione comincia a tessere trappole: se anche il ritorno fosse precluso? Se quel tunnel fosse un labirinto e ci si perdesse nell’oscurità?
La scelta delle decisioni
È in questo conflitto interiore che si misura il coraggio. Chi trova la forza di reagire compie il gesto anti istintivo di rimanere ad osservare che solo a sangue freddo si riesce a fare. Chi invece non resite e diviene vittima dei propri fantasmi, compie quello più liberatorio, si tuffa nel laghetto e fugge via. Lo fa con il cuore che batte all’impazzata, sentendo l’acqua fredda stringere i muscoli e il fiato mozzarsi. Ma quella immersione è anche un atto simbolico, quasi un battesimo per chi ha prevalso l’ immediato istinto di sopravvivenza e per chi viceversa, accetta la prova a fronte del valore che attribuisce alla conoscenza di quanto avviene. In entrambi i casi al termine del lungo percorso, compare il primo chiarore, un tenue riflesso che segna la fine del buio. Quel bagliore non è soltanto il ritorno alla superficie, è la riconquista della quotidianità, della nostra fragile e rassicurante esistenza di sempre.
Alberto Zei






