Una mostra che sfida l’uniformità del linguaggio visivo e restituisce all’arte la sua funzione più antica: quella di far pensare, immaginare, sorprendere.
Portoferraio – Nello spazio espositivo della storica Gran Guardia, affacciata sul mare della cittadella medicea, si apre una nuova e intrigante personale dedicata al pittore elbano Luigi Congedo, artista profondo, del “Circolo degli Artisti Isola d’ Elba” che da tempo elabora una propria grammatica visiva capace di fondere istinto, pensiero e metamorfosi stilistica.
La mostra – composta interamente da sue opere – si presenta come un’unità concettuale, ma volutamente non come una sequenza stilisticamente uniforme. È proprio questa la chiave di lettura più affascinante: l’artista lavora su matrici intellettuali comuni, ma declinate attraverso una varietà di linguaggi pittorici differenti, come se volesse dimostrare che un’idea può vivere più vite, ciascuna coerente con la propria forma espressiva.
Le tre modalità semiotiche della pittura di Luigi Congedo
Osservando l’insieme delle opere esposte, emerge con chiarezza come l’arte di Luigi Congedo non si lasci definire da uno stile rigido, ma si dispieghi secondo una pluralità di codici pittorici, tutti radicati in un’identica intenzione simbolica, ma capaci di mutare veste formale con sorprendente libertà. Sono almeno tre le modalità semiotiche principali che si possono distinguere all’interno del suo percorso.
Allegoria monocromatica
La prima è quella allegorica e monocromatica, dove prevalgono le superfici compatte, le tinte piene, i segni essenziali. In queste opere, figure immaginarie si stagliano su fondi omogenei, a volte indefiniti, assumendo la forza visiva dei simboli e la quiete delle icone. È una pittura che rinuncia al chiaroscuro e alla tridimensionalità, ma guadagna potenza nell’astrazione, richiamando linguaggi affini al fumetto o alla grafica pubblicitaria, pur trasfigurandoli in chiave concettuale.
Tratteggio rigoroso e disciplinato
La seconda modalità è quella del tratteggio rigoroso, dove il segno domina sulla macchia, e la linea guida la forma fino a un’estrema sintesi. È una modalità che richiama la prima stagione dell’artista, ma che oggi viene rielaborata in chiave più astratta: la precisione formale non serve più a costruire figure realistiche, ma a contenere e indirizzare il flusso immaginativo, quasi a dare ordine alla visione.
La verosimiglianza dell’immaginario
Infine, la terza via si rivela la più intima e misteriosa: è la modalità in cui la pittura attinge alla memoria emotiva dell’infanzia. I tratti si frammentano, si spezzano, lasciano spazi vuoti che sono, a loro modo, eloquenti. Le figure si affacciano appena, allusive, incerte. Ma nonostante la loro indeterminatezza, richiamano qualcosa che tutti conosciamo: i personaggi delle favole, i racconti della prima età, le immagini mai viste ma profondamente credute.
Congedo riesce qui a creare una verosimiglianza dell’immaginario, in cui lo spettatore si riconosce non perché capisce, ma perché ricorda. In queste opere la pittura non mostra, evoca; non descrive, riattiva. E per chi ha mantenuto uno spirito aperto al mistero, queste immagini possono anche riaprire le porte verso interessi più profondi, come l’esoterismo, la mitologia, la memoria inconscia.
Pittura come codice
Non è facile incasellare Congedo in una corrente o in una scuola. E forse è questo il suo valore più rilevante: la sua pittura non si propone come stile, ma come linguaggio. O meglio: come una serie di codici semiotici, di strumenti espressivi che l’artista assume e abbandona, rielabora e reinterpreta, come un musicista che riprende un tema e lo declina in variazioni.
Il visitatore attento, attraversando le sale della Gran Guardia, avverte questa tensione: non una mostra decorativa, ma un percorso di pensiero, in cui ogni tela è il frammento di un dialogo più grande, un invito alla riflessione sul potere dell’immagine, sul ruolo dell’artista, sull’instabilità stessa dei significati.
L’opera che ci guarda
A volte l’arte non si limita a chiedere attenzione, ma chiede partecipazione. Non vuole essere capita, ma abitata. I quadri di Luigi Congedo sembrano in effetti non tanto proporre una visione, quanto invitarci a entrare in essa, come se fossero passaggi aperti tra il dentro e il fuori, tra ciò che vediamo e ciò che ancora non riusciamo a formulare con le parole.
Ci si accorge allora che non è più l’osservatore a guardare l’opera, ma è l’opera a guardare l’osservatore, a cercare in lui quel frammento dimenticato, quella memoria sottile, quel moto interiore che, pur senza nome, vibra in risonanza con il segno tracciato. E così, ogni linea spezzata, ogni tratto allusivo, ogni sfocatura voluta diventa eco di qualcosa che ci appartiene, pur senza che l’abbiamo mai posseduto.
L’arte, in questa visione, non serve a spiegare il mondo, ma a renderlo nuovamente misterioso. E questo mistero non è oscurità, ma possibilità: la possibilità che l’immaginazione non sia evasione, ma accesso. Accesso a una realtà più profonda, che coincide con la nostra stessa capacità di sentire.
Congedo non chiede di essere decifrato, ma accettato come un linguaggio in evoluzione, che non ha paura della molteplicità, dell’ambiguità, della metamorfosi. E in questo suo muoversi tra i codici, i ricordi, le allusioni, c’è forse la sua lezione più sottile: che non esiste un solo modo per dire la verità dell’arte, così come non esiste un solo sguardo che possa esaurire il mistero del vedere.
Alberto Zei






