È appena uscita, per Barta edizioni, “Franco?”, la prima “graphic novel” di Pollo Cioni, noto agli elbani soprattutto come Paolo Cioni, uno dei volti di spicco della serie TV “I delitti del Barlume”, nella quale interpreta da più di dieci anni il personaggio di Marchino.
Presentata con successo durante l’ultima edizione di Lucca Comics, l’opera interroga in maniera provocatoria il senso della distinzione tra fumetto classico e graphic novel modaiola.
In sé stesso il lavoro è breve e lapalissiano (misura appena una pagina), fulminante come l’idea di partenza, giocato (forse soltanto all’apparenza) sulla tenuta dell’identità personale e sui suoi ambigui rapporti con il nome proprio. Il resto del volume è costituito da schizzi preparatori, commenti, paratesti e variazioni tautologiche della storia narrata.
Si tratta, in sostanza, di un’operazione concettuale che – come certe espressioni dell’arte contemporanea nelle quali l’ironia è utilizzata in funzione di spaesamento e d’assalto ai luoghi comuni – finge di volersi prestare alla molteplicità delle interpretazioni e di offrire quindi al lettore innumerevoli spunti di riflessione. Spunti e possibilità di lettura che, a guardar bene, appaiono però beffardamente autoconclusivi, non suscettibili di ulteriori esplorazioni o attraversamenti. Nello stesso tempo, prefazioni, postfazioni et alia deviano e svicolano dal centro inafferrabile di questo fumetto anomalo, in una deriva centrifuga e centripeta, fatta di sottotesti e non detti.
Fa eccezione, forse, la vignetta di Gardums, dove il protagonista dell’opera è ritratto al centro di una folla, mentre regge un palo con un’insegna sulla quale è scritto «Qui». Vuole forse, questo “Franco”, farsi trovare e riconoscere? La folla in realtà lo ha già trovato e riconosciuto, e lo indica con un gesto simile al segnale usato dagli ultracorpi alieni nel “Terrore dallo spazio profondo” per smascherare gli ultimi esseri umani rimasti sul pianeta Terra.
“Franco?” ricorda anche, per certi versi, “Super Noi” di Maurizio Cattelan, opera nella quale l’artista chiese ad amici e conoscenti di descrivere le sue sembianze a un ritrattista forense. Ne uscì una serie di identikit, simili e differenti, corrispondenti alle varie immagini che del Cattelan avevano gli altri. Mai il suo “vero” volto, ovviamente. E se per un singolo disegno tale scarto tra percezione interna ed esterna può essere tranquillamente tollerato, la sua ostinata ripetizione nella molteplicità si fa invece inquietante e perturbante minaccia, modernamente distruttiva.
Ed è questo il punto al quale forse arriva anche Pollo con questa sua prima opera in volume: una più vasta consapevolezza del reale è in realtà inutile e inservibile, non aggiunge niente a quello che siamo e che sappiamo di noi, anzi: irrita e sconvolge. Confessa per l’autore la marachella suprema un mostrillo incappucciato in terza di copertina che dice a denti stretti: «Mi vergogno…». Ed è proprio la vergogna di gozzaniana memoria il sentimento forse più autentico che coglie l’individuo al cospetto delle molteplici apparenze che la sua identità è in grado di assumere: la cosa che sembra appartenerci di più, che sembra definirci in modo assoluto e senza residuo (ciò che in sostanza diciamo e pensiamo di essere) è in realtà una protezione che nasconde una cosa aliena, inafferrabile e sconosciuta, che sembra vivere di vita propria, affidata alle innumeri determinazioni e negazioni del tutto.
Io è un altro, scriveva già Rimbaud nella seconda metà dell’Ottocento, seguito a ruota da innumerevoli altri, surrealisti e strizzacervelli.
Così, seguendo un solco ancora otto-novecentesco, l’idea di Pollo si fa libro e volume grazie agli interventi di altri artisti, disegnatori, attori, registi, scrittori e commentatori, tra i quali figurano Alessandro Benvenuti, Roan Johnson (che nota la cosa nel suo testo di chiusura) e il sottoscritto.
Pollo, in tutto questo, appare il regista schivo e generoso della macchina celibe che ha messo in moto e che ha lasciato funzionare a modo suo, ben consapevole, credo, di quanto il meccanismo scatenato porti inevitabilmente a una fatale, disorganica e irrimediabile macinazione del senso e dell’apparente stabilità personale che tutti noi proviamo quotidianamente ad attribuirci.
Angelo Airò Farulla






