La seconda guerra mondiale insanguinava ancora il mondo e l’unica felicità veniva da qualche sporadico evento sportivo e al Bar del Sor Nello, a Marciana Marina, c’era un bimbetto di 7/8 anni che strabiliava tutti facendo la telecronaca delle partite imitando Nicolò Carosio, il radiocronista (e poi telecronista) che per 37 anni, dal 1933 al 1970, fu la voce che raccontava agli italiani le imprese e le sconfitte della nazionale italiana di calcio.
Quel bimbetto si chiamava e si chiama Alfio Teggi, nato a Befana del 1936, ma che, mentre si incammina per i 90 anni, si ricorda ancora di aver sentito la dichiarazione di guerra di Benito Mussolini alle plutocrazie occidentali che trascinò l’Italia alla sconfitta, alla fame e al disonore: «Quando è scoppiata la guera io c’ero - racconta Alfio dopo 85 anni – in Piazza di Sopra il Sor Giacomo, il banchiere, collegò 7 o 8 aradio e la gente venne a sentire il discorso di Mussolini che l’Italia entrava in guera».
E la guerra, strisciando in mare come un grosso serpente velenoso, entrò nelle case e nelle famiglie marinesi e raggiunse il Cotone. «Il mi’ babbo navigava – ricorda Alfio – è stato colpito 3 volte, tre volte è affondato ma si è sempre salvato. Invece, il mi’ zio Angiolino (un nome sacro e tramandato col battesimo tra i Teggi, ndr) è morto bombardato in mare. Una bomba centrò il fumaiolo di una barca – roba militare - dove c’erano altri 5 marinesi, si salvarono solo Carlino Pisani e Pastasciutta (Giovanni De Angeli) perché erano a uno a poppa e uno a prua».
Mentre succedeva tutto questo, un bimbo al bar faceva le cronache delle partite ed era così bravo che la sua fama oltrepassò il canale e un giorno alla porta della casa dei Teggi, all’inizio del Cotone e alla fine di un corridoio buio, tra quelli che poi diventarono il ristorante La Fiaccola e la Cantina Coltelli, bussò un signore di Roma per vedere il piccolo fenomeno e chiese a babbo Giacomino e a mamma Adele se poteva portarsi nella Capitale quel piccolo imitatore di Carosio per farne un commentatore sportivo. Come risposta ebbero un secco e perentorio no, perché Alfio era troppo piccolo per abbandonare La Marina, il Cotone, il paese e la famiglia. E così fu, anche se a quel bimbo rimase appiccicato il soprannome di Carosio che si porta anche ora, anche perché poi Alfio il radiocronista lo fece davvero per commentare a Radio Elba le partite del Marciana Marina e continuò a fare l’imitatore, tanto che nel 1991 Alfio vinse il primo premio a un concorso presentando sul palco in piazza l’imitazione di Papa Woytila, Giovanni Paolo II, il pontefice polacco.
E lo sport è rimasto la passione della vita di Alfio ed è così che è diventato sampdoriano. A Marciana Marina c’erano già diversi genoani, erano i figli di chi trafficava vino e merci con Genova e di chi da Genova partiva per la navigazione di lungo corso, mesi e anni per raggiungere le Americhe, andare anche più lontano, e tornare (“C’è di tutto come a Genova”, dicevano i vecchi marinesi), ma sampdoriani no. Una mancanza che fu colmata da Renato Gei, un giocatore – e poi allenatore – allora famoso che dal 1948 al 1951 giocò proprio nella Sampdoria (e due partite in Nazionale contro Svizzera e Turchia) che capitò tra i primi turisti del dopoguerra all’Elba e, proprio al Porto di Marciana Marina, di fronte al Cimitero, si ritrovò su un campo sportivo di terra e sassi con sopra un branco di ragazzini che si contendevano una palla di stracci. Gei, che preferiva quella polvere al mare trasparente della Finiccia, portò un pallone vero, insegnò ai bimbi marinesi qualche trucco del calcio dei grandi campioni e, finita la villeggiatura, tornò a giocare in serie A. Ma l’estate dopo quel dio del pallone si ripresentò a La Marina, su quel campo in riva al mare, con le divise della Sampdoria per tutti quei ragazzetti e soprattutto con una cosa mai vista e sognata come l’impossibile: scarpini da calcio per tutti! E’ lì che Alfio/Carosio e diversi di quei bimbetti giurarono eterna fedeltà alla Sampdoria, anche se Gei poi finì per giocare in altre squadre e allenarne innumerevoli altre. E’ con la Samp nel cuore che Alfio/Carosio ha giocato poi innumerevoli volte nel Marciana Marina, in campionati dove le partite finivano spesso a cazzottate sugli spalti e a volte anche dentro il campo.
E Alfio, muscoloso e tarchiato, era uno al quale stare lontano se scoppiava una zuffa. Dopo qualche incontro di boxe da pugile mentre era militare, Carosio dal 1959 al 1961 fece parte della mitica 10 remi, rossa e che, a forza di braccia, filava più di un vapore, che si aggiudicò il campionato remiero elbano per tre anni consecutivi e venne insignito della Coppa Nazionale dal Presidente della Repubblica Gronchi. Un equipaggio che entrò nel mito e nell’orgoglio paesano anche grazie alla paga in natura che tutte le sere di allenamento il dottor Melloni lasciava a ogni vogatore: una bistecca da Umberto il Macellaio e un bicchiere di Marsala al bar da Aldo.
Intanto, mentre il mondo ribolliva di guerra e poi di pace e Carosio, quello vero, raccontava il calcio alla radio e poi in televisione, la vita andava avanti e Alfio a 14 anni cominciò a portare il pane a casa facendo un mestiere che non esiste più: il fiaccolatore. Usciva la notte con una lampara, una fiocina e un fiasco di petrolio (il canfino) con il quale alimentava un gazometro pompando il carburante a tutta forza, poi accendeva la calza di amianto dentro il bulbo di vetro, facendo una luce come quella di 1.000 candele che rischiarava il mare fino a 6 – 7 metri di fondo, attraendo i pesci e le seppie allibiti da quell''improvviso sole in piena notte. E Alfio con la fiocina prendeva i più grossi, scoglio scoglio. rischiarando le fosse sul fondo, calcolando rifrazioni e riverberi, a caccia silenzioso nel mare nero, un ragazzino in una pozza di luce galleggiante nella notte. Lui e il sibilo di fuoco della fiaccola.
Poi, da 16 anni fino a 18, Alfio/Carosio lavorò con la Federici, tra camion e dinamite, ad allargare e asfaltare la strada che da Procchio arrivava ancora al ponte che non c’è più e che attraversava il fosso di San Giovanni e portava in via Roma e da lì in paese, nel labirinto di case, prima che facessero via dei Malcontenti, tagliando in due via Garibaldi, abbattendo una casa della quale resta ancora un segno nero di licheni, ed espropriando vigne ed orti. Insieme a lui c’era un minatore capoliverese, Livio Gentini, un uomo grande e grosso e buono, con la voce di un tuono allegro e mani di ferro, che sarebbe diventato suo cognato.
Poi arrivò il turismo, prima con i sacchi a pelo di chi dormiva tra le viti e le pampane in riva al mare, poi con gli alberghi e i villeggianti. Fu allora che Alfio si unì a un altro suo cognato, Mario Berti, per aprire il Ristorante la Fiaccola al Cotone, un nome che onorava – e ancora onora - quelle lampare e quelle fiocine che sfamarono sia Alfio che Mario da giovani. Alla Fiaccola Alfio ha fatto il cuoco fino al 1971, cucinando tartarughe, polpi e nasello all’isolana e inventandosi primi piatti che hanno conquistato i menù di altri ristoranti.
Poi un giorno Piccio Bonanno, il sindaco democristiano di Marciana Marina, chiamò Alfio per dirgli che aveva un progetto che lo riguardava: se fosse riuscito ad aprire la scuola a tempo pieno aveva pensato a lui come cuoco. Piccio ci riuscì e il test di ingresso ad Alfio glielo fece un cuoco sopraffino: Ciccio Torino della Marinella – allora vicesindaco o assessore - e credo che fu più uno scambio di ricette che un esame. Fu così che Alfio si trovò a far da mangiare a 170 bimbe e bimbi più i loro insegnanti e lo fece, mentre il calo demografico già decimava le classi, fino al 1992. Poi Alfio è andato in pensione.
Ora vive proprio accanto alla scuola insieme all’eterno amore della sua vita, Elba, che ha sposato il 12 febbraio del 1961. Il testimone di nozze di Alfio era un altro cotonese: Eugenio Pagnini della stirpe dei Pomata, un uomo ironico e flemmatico che se ne è andato pochi giorni fa e con il quale ho condiviso qualche chiacchiera sul mondo, il mare, il nostro strano paese e gli affari ingarbugliati degli uomini, quando io facevo il sommozzatore e lui navigava sulle bettoline che negli anni ’80 e ’90 portavano l’acqua all’Elba assetata.
Ora, Alfio ed Elba, fidanzati dal 1955, se ne stanno lì come chi sa di aver fatto il proprio dovere, a guardare i 70 anni passati insieme, riassunti in un album di foto di matrimonio e in un pugno di fotografie di sport, vita e lavoro, di quando le foto erano ancora un bene unico, raro e prezioso. Ripensano alla loro vita passata in questo angolo di mondo in mezzo al mare, ricucendo passato e presente e guardando al futuro negli occhi di figli e nipoti. Ripensano a Carosio, a quel bimbo mai partito per Roma, a un vestito da sposa, a una fiaccola che illuminerà ancora i loro anni e che fa luce sul loro passato che è anche la nostra eredità, le nostre fondamenta di scogli e alibe, il pesce che guizza nella luce del ricordo, almeno fino a che sapremo arpionarlo col racconto e le parole.
Umberto Mazzantini
Niente di tutto questo avrebbe potuto essere scritto senza i ricordi di Alfio, precisi e nitidi come una fotografia







