Precipizio, al secolo Iginio Sardi, era figlio di un altro Precipizio, Giacobbe, dal quale prese il soprannome ma solo una parte del patrimonio. Giacobbe, col suo nome da patriarca biblico, fu contadino e pescatore come gli apostoli di Gesù, e si dice abbia fatto fortuna in Australia, per poi tornare con un bel gruzzolo e fare l’armatore di una flotta grigia di sciabichelli sulla quale pescò anche il mi’ babbo Veleno. Era un uomo ricco, padrone di botteghe e palazzi e della bettola più famosa della Marina, La Secca, dove i briachi finivano impigliati come gli zeri nella rete dello schiabichello.
Nonostante fosse un imprenditore benestante, il vecchio Precipizio aveva idee socialisteggianti e anarcoidi e non si fidava delle banche e dei banchieri e così custodiva i soldi in una grossa valigia che teneva sotto il letto. E accumulò così tante banconote e per così tanto tempo che non si accorse che erano andate fuori corso e quando andò in banca a Piombino per convertirle nelle nuove lire, gli dissero che aveva una valigia di carta straccia e che ormai gran parte della sua ricchezza era buona solo per farci cenere. Sconsolato si fermò su una panchina a fare un riassunto della sua vita, che su quella panchina gli sfuggì per crepacuore di fronte a quel mare d’acciaio.
Iginio se ne andò dall’Isola per il mondo a cercare con i bastimenti la fortuna del babbo. Non la trovò nella legione straniera nell’impero inglese dell’India, forse andò in Australia anche lui, comunque tornò che aveva imparato un’inglese un po’ maccheronico e zeppo di parole esotiche, ma che ne fecero uno dei pochi traduttori in un paese di naviganti e dove a volte approdavano marinai che parlavano lingue sconosciute. Quando nell’Elba contadina degli anni ’50 venne la BBC a girare il film “Elba Boomerang” fu Precipizio uno degli accompagnatori delle troupe che spiegò ai britannici in un inglese coloniale cosa fosse quell’isola esotica che tanto li meravigliava per la sua arretratezza e che stava uscendo faticosamente dalla povertà per avviarsi verso il futuro, come una tartaruga marina che nasce faticosamente dalla sabbia. E Iginio Precipizio appare anche in un frammento di Elba Boomerang, raccontandoci dal passato quali erano i nostri sogni che ci siamo scordati.
Comunque, dall’India o dall’Australia, roso dalla nostalgia Precipizio tornò a La Marina dove, alla morte di Giacobbe, ereditò la casa e il terreno tra Viale Principe Amedeo e via del Ruotone, dove accanto, dietro un muro murato c’era il vecchio pagliaio di Cerbone, con in cima un enorme corno ritorto e dipinto di rosso di qualche bovino, forse di un altro mondo, forse per scacciare il malocchio, forse un simbolo e un avvertimento, forse entrambe le cose.
Insieme alla casa Iginio ereditò anche la bottega all’angolo tra scali Mazzini e via Felice Cavallotti, la strada che porta alla chiesa di Santa Chiara ma dedicata a un garibaldino radicale e repubblicano che voleva esiliare il re e bruciare il Vaticano. Ci fece una barberia che era ancora affacciata sulla spiaggia, che col mare grosso non si poteva entrare e a volte nemmeno uscire, accanto a una grossa bitta tonda per tirare in secco i bastimenti.
Il giovane Precipizio era alto per i marinesi di quei tempi, ed era anche stravagante ed elegante, vestito di bianco l’estate, con un Panama in testa e un bastone fine da passeggio. Per andare a lavoro spuntava da via della Fossa e attraversava di sbieco la piazza di sopra, che allora era di terra battuta e sassi, come per tenersi il più distante possibile dalla chiesa, e nel silenzio si sentivano le sue scarpe di cuoio scintillante che scricchiolavano come quelle dei ricchi. Al collo aveva sempre La Lavallière, il cravattino nero degli anarchici.
L’inglese delle colonie e degli oceani attraversati gli aveva lasciato un accento che trasformava il marinese in qualcosa di più sincopato, quasi una parlata da signori e in casa aveva attaccate sui muri le foto in bianco e nero dei Paesi dove aveva vissuto e dei santi barbuti dell’Anarchia: Kropotkin, Bakunin, Cafiero e dell’apostolo e poeta dell’anarchia, il più santo di tutti i santi col vessillo nero e rosso, l’elbano Pietro Gori, un angelo del proletariato con i baffi.
Iginio aveva anche una piccola collezione di rare porcellane di Capodimonte, ma un paio, quelle che probabilmente considerava più preziose, le aveva attaccate al muro esterno della sua casa, tra i peschi, trasformate in abbeveratoi per i suoi amati uccellini, per i passeri liberi nel vento e nel sole come si immaginava i cavalieri dell’anarchia.
Ma tra gli animali che affascinavano Precipizio c’erano anche le api laboriose e fu uno dei primi apicoltori moderni dell’Elba, allineando al ridosso del muro murato della sua chiusa le sue arnie che gli regalavano un miele che conservava in un orcio con l'interno smaltato che esiste ancora nella casa di Lorenzo il Capo.
Precipizio era un uomo grande e robusto. Lungo e con le ossa forti e una voce roboante da attore di teatro che faceva da contrasto con quella della sua amatissima moglie, Angiolina Paolini, una donna buona che aveva una vocina gentile come quella dei cardellini che andavano ad abbeverarsi e a mangiare nell’orto. E Angiolina è stata davvero l’angelo di Iginio, l’amore della sua vita che lo tenne con sé, amato in una casa pulitissima e ordinata, un’oasi di pace.
Precipizio era un barbiere che all’occorrenza faceva anche il cerusico, e nel retro della barberia c’era una sala da biliardo. A volte, mentre Precipizio faceva la barba o i capelli o cavava un dente a qualcuno, dal biliardo si sentiva urlare «bazzica!» e Precipizio si precipitava di là, lasciava lì, sulla poltrona del barbiere, il cliente insaponato, tosato a metà o con la bocca aperta per andare a riscuotere la partita, ma trovava i giocatori ancora con le bocce o la stecca in mano e la partita ancora in corso, con un risolino sulla faccia da finti innocenti e i soldi per pagare ancora in tasca.
Iginio era un barbiere per bisogno e un agricoltore e apicoltore per passione, che curava il suo fisico e il suo vestire come curava e rispettava le piante e i suoi peschi che facevano i frutti più grossi e buoni del mondo dopo quelli proibiti mangiati da Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden.
Ma per i bigotti e i reazionari, per i guerrafondai, Precipizio era il serpente tentatore dell’Eden, un senza Dio e un senza patria, una testa calda che aveva visto le guerre dei civilizzatori e che sputava sulle guerre sante che seminarono l’Europa e il mondo di milioni di morti.
Quell’anarchico profumato ed elegante, con la voce tonante, metteva soggezione, ma la sua irruenza era mitigata dalla moglie piccola e gentile che leniva con l’amore la solitudine intellettuale di un uomo che si sentiva poco capito dal suo paese. E Precipizio curava piante e persone, seccava piante aromatiche ed essenze e inventava insieme ad Angiolina tisane che improfumavano tutta la loro casa, ed era con il miele delle api che Iginio e Angiolina si rendevano più dolce la vita di sposi innamorati, mentre nelle stanze, al freddo dell’inverno o al caldo dell’estate, risuonavano le note e le parole dell’opera e del melodramma.
Iginio non credeva in Dio e sapeva che Dei nel mondo ce ne sono tanti, diversi da quello che raccontava il prete in chiesa, ma venerava e credeva nella natura, sapeva che esiste un equilibrio tra l’uomo, gli animali, le piante e il mondo e che se sai ascoltare tutto si parla. Ma più di tutto Precipizio amava Angiolina e lei amava lui, fino a che la morte non li separò, tagliando con la falce che tutti ci taglia quell’amore da romanzo, da opera mai scritta e mai cantata, un amore che cancellava il mondo e le guerre, fragile e bello come le porcellane di Capodimonte, forte come gli alberi, profumato come una tisana. Una fortuna essersi incontrati nel mondo: uno che il mondo l’aveva girato e l’altra che era stata ad aspettare a La Marina qualcuno che non conosceva ma che sapeva che sarebbe tornato e l’avrebbe trovata. Angiolina credeva che comunque qualche Dio, forse il nostro e suo figlio morto in croce, li avesse in qualche modo benedetti con quella vita insieme, oppure che ci fosse un Dio anarchico degli innamorati.
Quando chiuse la barberia Precipizio diventò il barbiere dei poveri e dei bimbi pidocchiosi che andavano da lui per rimediare a un taglio di capelli mal fatto in famiglia o per essere rasati a zero per eliminare i parassiti. Dietro quel muro vicino all'altro col corno rosso sul pagliaio mi ci portò un giorno anche la mi’ mamma disperata e Precipizio prese la macchinetta, mi rapò rapidamente a zero gratis e alleviò burbero la nostra miseria, ricevendo in cambio un grazie da Jole mentre ci metteva alla porta e da un grammofono si sentiva una cantante lirica che trillava qualcosa per me incomprensibile.
Quella poltrona da barbiere dove Precipizio sistemò radicalmente il tentativo maldestro della mi mamma di farmi i capelli, poi finì nel suo orto/giardino visitata da uccelli e lucertole, ore ce l’ha Lorenzo Anselmi all’Uccellaia, un piccolo monumento logorato dal tempo a Precipizio, il barbiere anarchico che amava Angiolina, gli alberi, i passeri e i poveri.
Umberto Mazzantini
Quello che avete letto su Precipizio e il suo e nostro mondo scomparso non avrebbe mai potuto essere scritto senza quello che mi ha raccontato minuziosamente Riccardo Mazzei, che di Precipizio è stato giovanissimo compagno e allievo di ideale. E non sarebbe stato possibile senza i ricordi precisi di Massimo Murzi e le correzioni di Lorenzo Anselmi che hanno conosciuto Iginio Sardi e Angiolina Paolini molto meglio di me che ne conservo solo vaghi ricordi. Un grazie anche a Marco Bulleri che mi ha ricordato che il pagliaio e il corno rosso non erano di Precipizio, ma di suo nonno Cerbone che, a differenza di Precipizio, aveva l'asino.






