“Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Ecclesiaste, 3, 1-8)
Le parole di questo scritto del Vecchio Testamento, composto fra il III e il II secolo a. C.,
sembrano riflessioni senza tempo, attuali sempre e prossime a chi le legge oltre ogni appartenenza culturale, ideologica, religiosa -come mostra la loro ripresa in una bellissima canzone di Ivano Fossati, che le segue come traccia per parlare del suo e del nostro tempo-.
Ma, cogliendo il senso profondo di quanto diceva papa Gregorio I (540-604) -“la scrittura cresce con chi legge”- quelle stesse parole, alla luce degli eventi dei giorni nostri, si caricano di un significato più immediato e -verrebbe da dire- profetico: nascere, morire, piantare, sradicare, uccidere, curare, demolire, costruire, piangere, ridere, lutto, gettare sassi (Intifada), cercare, perdere, conservare, buttar via, strappare, cucire, tacere, parlare, amare, odiare, guerra, pace.
E’ quanto vediamo tutti i giorni nelle cronache che i media ci fanno arrivare, quanto sentiamo dai testimoni che ancora riescono a far arrivare la loro voce, quanto possiamo immaginare interpretando ledichiarazioni ufficiali dei potenti della politica.
Al tempo stesso, però, quelle parole sono un richiamo alla responsabilità di intervenire: non si può essere spettatori disincantati e scettici degli eventi drammatici che si svolgono accanto a noi, che ci toccano direttamente riguardando la passione, la sofferenza, le speranze e le disillusioni di persone che ci sono prossime e sono più o meno direttamente, ma sempre direttamente, nelle terribili vicende delle guerre che scuotono il mondo: le comunità islamiche, alle quali appartengono tanti lavoratori immigrati; quelle ebraiche, presenti e radicate nel nostro territorio, concittadini rispettosi e rispettati; le comunità slave, verso le quali -oltre al rispetto dovuto a ogni essere umanoabbiamo spesso un debito enorme per l’assistenza che forniscono alle persone più fragili e necessariamente faticose delle nostre famiglie.
Non si tratta di decidere chi è colpevole o innocente: questo è compito dei tribunali che devono vigilare sul rispetto delle regole che la comunità internazionale si è data per garantire la convivenza fra popoli. Si tratta di chiamare le cose con il loro nome, per evitare che ci si possa nascondere dietro pregiudizi o menzogne, e assumere comportamenti e intraprendere azioni la cui gravità appare manifesta oltre l’accertamento giudiziale. E in questo la Storia ci soccorre, anche se spesso si preferisce guardare altrove per non disturbare il manovratore.
Ciò che sta accadendo a Gaza da due anni è indubitabilmente terribile.
Che il 7 ottobre 2023 si sia consumata una azione terroristica mi pare fuori di dubbio, per riconoscimento stesso di chi ne è stato autore. Del resto Hamas non è un esercito “regolare” di uno Stato sovrano “regolare”. Ci si può anche mettere a discutere sulla differenza fra “guerriglia” e “terrorismo”, ma è discussione oziosa e improduttiva.
Del resto anche la presenza di coloni israeliani sulla “Striscia di Gaza” è assai poco “regolare”, poiché viola decisioni internazionali che sono il fondamento stesso dello Stato di Israele.
Dunque torti e ragioni sono equamente divisi? Sono morti oltre mille cittadini israeliani, ma oltre sessantamila cittadini di Gaza City, con un rapporto di un israeliano per sessanta palestinesi.
Sarebbe facile -ma è pur vero- osservare che i Nazisti risposero all’attentato di via Rasella a Roma -e in molte altre consimili circostanze- con la morte di dieci “nemici” per ogni tedesco colpito (la “decimazione”, con una certa tendenza ad abbondare), cioè ben meno di quanto è accaduto in Palestina; e si potrebbe anche rammentare che eminenti uomini politici israeliani hanno dichiarato “giusto” il rapporto di 1/60, considerando lo scarso valore delle persone di nazionalità palestinese: ma in questo caso sarebbe troppa l’importanza data a parole in libertà, dissennate e -ci auguriamo irresponsabili.
Non so, e non mi importa neppure più che tanto, se a Gaza si stia consumando un “genocidio”, un “eccidio”, uno “sterminio”, o se “genocidio” riguarda in specifico gli ebrei in quanto tali perseguitati e sterminati durante la shoah (insieme a altri gruppi omogenei assimilati nello stesso destino) -e certo quanto avvenuto nella Germania nazista è di una gravità terribile, indicibile-. Ma anche in Palestina gli abitanti (3.000.000) di un grande territorio sono a rischio di sterminio in quanto palestinesi, con la motivazione dell’appoggio fornito ai “terroristi” di Hamas, presto divenuta accusa di terrorismo rivolta a tutti i palestinesi. Le loro case e le infrastrutture della loro comunità vengono rase al suolo; vengono impediti i rifornimenti per le cure e il sostentamento; orfani, mutilati, descolarizzati, disperati non si contano più -o forse si possono contare: sono semplicemente “tutti”-.
Non è più “tempo per tacere”. Spigolare sulle opportunità, sulle tattiche, sulle convenienze; appoggiarsi alle responsabilità altrui, strumentalizzare per meri calcoli politici eventi o polemiche.
È “tempo di parlare”, di partecipare (cioè di “prendere parte”), di scegliere da che parte stare: non per mera adesione “passionale”, ma per discernimento di ciò che si deve fare per venir fuori da una situazione insostenibile. Senza rifugiarsi nella comoda accusa di antisemitismo -che presuppone una “razza” che nessuno invoca più, salvo che non voglia separarsi da tutti gli altri uomini-; senza invocare sicurezza affidata alla guerra, che necessariamente dovrà essere sempiterna, perché la sicurezza non è un ombrello, che quando uno ce l’ha è per sempre; senza invocare volontà e vocazioni “superiori”, che trasferiscono su un piano per definizione trascendente volontà e vocazioni che -per la necessaria accettazione- esigono di restare ben ancorate alla realtà effettuale delle cose.
Non so se il riconoscimento dello Stato palestinese -che oggi fa un altro passo in avanti all’ONU- porterà alla fine della guerra e lo farà prima che della pace non ci sia più bisogno. Ma è almeno una manifestazione -tardivissima- di una volontà, che è pur qualcosa.
Per restare in tema, rammento un passaggio biblico del libro dell’Apocalisse 3, 16, in cui Gesù Cristo si rivolge ai fedeli della Chiesa di Laodicea:
“Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, ti vomiterò dalla mia bocca”.
Non è più tempo di aspettare.
Luigi Totaro






