La leggenda, o forse la storia, vuole che intorno al 1550 una nave spagnola fece naufragio lungo la costa tra la Marina di Marciana, allora ancora paludosa e quasi disabitata campagna di Marciana, e Procchio, allora terra agricola e marina di Poggio, difesa da dune colossali che poi il turismo si è mangiate in pochi anni.
A bordo di quella nave che aveva sfidato un mare irto di vele e scimitarre di pirati saraceni c’era un carico preziosissimo di piccoli cantori: maschi e femmine di canarini. Merce viva e da mantenere segreta perché gli spagnoli, ancora oggi padroni delle Canarie, avevano il monopolio dei canarini e commerciavano a peso d’oro solo i maschi, perché nessuno potesse riprodurre quegli uccellini angelici che erano destinati a deliziare con il loro canto la nobiltà europea.
Cosa ci facesse una nave carica di canarini maschi e femmine da quelle parti in un mare in tempesta non lo sa nessuno. Forse, se il naufragio avvenne dopo il 1557, navigava verso il neonato Stato dei Presidi dei viceré spagnoli di Napoli, verso quello dopo diventò Porto Longone. Forse gli spagnoli volevano farci un loro allevamento segreto. Uccelli carcerati dove un giorno sarebbe nato un carcere.
Insomma, sballottati dalla storia e dai cavalloni del mare cattivo, i canarini annegarono insieme a qualche marinaio su una costa sconosciuta, ma alcuni si salvarono o furono salvati e si ritrovarono in un’isola che sembrava quella dove erano stati catturati alle Canarie e la leggenda dice che nidificarono e si riprodussero, anche se oggi i discendenti di quei naufraghi all’Elba non ci sono più se non in gabbia.
Allora i canarini – e ancora ora quelli selvatici sopravvissuti alle Canarie - somigliavano per colorazione e dimensione ai porciani e ai verdoni che gli elbani conoscevano bene. Forse qualcuno, qualche contadino di una Marciana Marina che ancora non esisteva o un pugginco di Procchio trovò fra i rottami del naufragio qualche gabbietta con coppie di canarini terrorizzate, forse dei piccoli superstiti riuscirono a salvarsi dall’annegamento e ad asciugarsi il salmastro nei boschi di lecci sopra il mare in tempesta… furono comunque traditi dal canto che rivelò che quelli che sembravano porciani e verdoni, proletari con le ali, erano invece gli angeli verdi e gialli dei re, gli uccellini della leggenda che facevano liberi concerti tra gli alberi nelle isole cristiane perse nell’oceano mare, di fronte all’Africa nera e musulmana, o che cantavano in gabbia la libertà persa nei saloni di marmo e dipinti dove ballava e gozzovigliava la nobiltà europea. Troppo preziosi per essere presi con un laccio o una tagliola e finire allo spiedo.
Fu il canto che tradì i canarini della Canarie e altri isolani di terre che dovevano prendere ancora il loro nome li catturarono e li fecero accoppiare, li vendettero, maschi e femmine, democraticamente, ponendo fine al monopolio del canto fino a che, accoppiamento su accoppiamento, non nacque un canarino giallo, bello come il sole, regale davvero, cantante ormai abituato alla sua prigione, uccello da gabbia che aveva rinunciato alla sua libertà in cambio di un po’ di semi di panico.
Se è così, se il leggendario naufragio di uccelli ha un fondamento di verità, il piccolo re giallo capostipite dei nuovi canarini di tutto il mondo, fino ad arrivare a Titti del gatto Silvestro, il compagno dei minatori che li avvertiva al buio del pericolo mortale del grisù, è il pronipote mutato, allevato e prigioniero, dei canarini che naufragarono all’Elba e che assaporarono una fugace libertà per diventare i cantori di una prigionia che dura ancora.
Umberto Mazzantini






