Mentre scendeva da via Garibaldi, Franco, Fagiolo per tutti, sentì qualcosa spegnersi dentro, un mancamento rapido e un giro di testa. Pensò fosse stanchezza, si sedette su un gradino e chiuse gli occhi. Il torpore gli cadde addosso come una coperta calda e reclinando la testa sul petto si lasciò scivolare in quella sonnolenza strana ma dolce.
Quando li riaprì, non sapeva quanto tempo fosse passato. Il malessere era sparito. Si alzò e prese a passo svelto la strada che scendeva al Cotone, verso la sua casa incastrata negli scogli, le pareti aggrappate alla roccia come un polpo nella tana.
Si sentiva leggero, quasi rinato. Era da anni che non provava una forma simile. Quel sonnellino, pensò, lo aveva rimesso al mondo.
Entrò senza accendere la luce. Il mare sotto la finestra respirava come sempre, quel fiato breve che risucchiava, sbuffava e taceva un attimo prima di ricominciare.
Fagiolo si tolse la giacca e la lasciò cadere dove capitava. Cercò la sedia di sempre. Non c’era.
«che fava…» brontolò. Era sicuro di aver lasciato tutto al posto giusto. Eppure, la stanza pareva uguale e diversa, come se qualcuno avesse spostato ogni cosa di un dito.
Si passò una mano sul viso, sulla barba. Rimase fermo. La barba sembrava più corta, più morbida. Come seta.
Poi bussarono.
Un colpo secco, pieno, la porta che tremò.
Fagiolo si irrigidì. A casa sua non veniva nessuno, soprattutto la sera. Lo sapevano tutti. E lui non aveva voglia di gente né di parole né di fastidi.
«Chi è?» grugnì senza muoversi.
Silenzio. Solo la risacca.
Poi una voce calma e profonda, vicina e lontana insieme:
«Sono Oreste.»
«Oreste?... Oreste chi?» ringhiò Fagiolo.
La risposta arrivò subito.
«Oreste Macallè.»
Un tonfo gli cadde dentro, come un sasso negli scogli sotto la finestra.
Macallè era morto da anni. Ricordava tutto: il manicomio chiuso, la gamba perduta, la fine muta. Al bar avevano perfino bevuto in suo nome, tra uno sfottò e un rimpianto.
«Non si scherza con i morti» sbottò Fagiolo, più duro di quanto volesse. «Macallè non c’è più. vattene, imbecille. Vai a prendere per il culo qualcun altro. Se non te ne vai esco e te ne accorgi.»
Nessuna risposta. Nessun passo che si allontanava. Anche il mare sembrò trattenere il fiato.
Fagiolo avanzò verso la porta, il sangue che ribolliva come quando fischiavano un rigore inventato contro la Juve. Afferrò la maniglia e spalancò con uno strattone.
Si fermò.
Davanti a lui, a un passo soltanto, c’era Macallè.
Non un’ombra. Non un fantasma diafano.
Lui. Vivo, o qualcosa di simile. Riccioli spettinati, faccia larga, barba da lupo mannaro durante la luna piena, occhi persi come da ragazzo, lo stesso sorriso storto e sdentato. Camicia sbottonata, piedi scalzi bianchi di sale come quando scendeva agli scogli dell’Omo. Solo più giovane di come lo ricordava.
Le ginocchia di Fagiolo cedettero un istante.
Macallè inclinò la testa.
«Cugio» disse piano. «Un mi fai entra’?»
La voce era la sua. Il tono era il suo. Ma il mondo non poteva esserlo.
Fagiolo restò senza fiato.
Il mare alle sue spalle respirava lento, senza vento. Tutto sembrava sospeso, anche le onde.
Fagiolo si passò una mano sulla fronte. Si sentiva strano e stanco, come se la testa gli scivolasse via dal collo. La vista gli si velò per un attimo.
«O che… mi sono addormentato in piedi?» pensò. «Sto sognando. Dev’essere un incubo. Ora tanto mi sveglio.»
Uscì senza parlare, sedendosi sul muretto davanti a casa, consumato dal sale. Il mare era calmo, l’acqua appiattita dal caldo come nelle sere d’agosto.
Macallè lo seguì e si sedette accanto a lui. Fagiolo sentì il peso del suo corpo, l’odore di mare, sale, sudore secco. Era tutto vero. Terribilmente vero.
Macallè fissò il mare.
«So cosa stai pensando, Franco» disse.
Fagiolo non rispose. La gola gli tirava.
«Ma non è un sogno. Non ti sveglierai e non tornerà tutto a posto.»
Poi si voltò. Negli occhi aveva lo stesso luccichio di quando rideva a mezzanotte fuori dal Bar da Aldo.
«Sei morto, cugio. E visto che sto spesso qui, sulli scogli, quando ti ho visto arrivare ho pensato di avvertirti.»
Fagiolo iniziò a tremare. Non era solo paura. Era una vertigine, come se il terreno gli fosse stato tolto da sotto i piedi.
Macallè se ne accorse, gli posò una mano larga sulla spalla e sorrise con dolcezza.
«Non ti preoccupare. Non aver paura. Da morti non si sta male.»
Fagiolo lo guardò. Gli occhi gli bruciavano.
«Dai, fammi vedè che è tutto vero. Fa’ qualcosa da morto, un’apparizione, una sparizione… qualcosa di soprannaturale.»
Macallè non rispose. Non si offese, non rise.
Si alzò e prese a camminare verso gli scogli del Cotone, quelli scuri e lisci che brillavano sotto la luna.
Fagiolo lo fissò.
«Allora!?» urlò. «Fà qualcosa per fammi vedè che sei uno spirito!?»
Macallè si fermò a metà della scogliera.
«Ma non vedi nulla di strano?»
Fagiolo si raddrizzò sul muretto, strinse gli occhi e lo guardò meglio.
Macallè salì sugli scogli con un’agilità che non aveva da anni, come un ragazzo.
All’improvviso Fagiolo si portò una mano alla bocca.
«Hai… hai due gambe, Oreste…»
Le onde sotto di loro si infransero piano, quasi un applauso.
Macallè guardò il mare un momento, poi sollevò la gamba destra, quella che non aveva più da vivo, e la appoggiò su uno scoglio.
«Già» disse. «Due.»
Fagiolo rimase a bocca aperta, come quando gli dicevano che la Juve aveva perso.
Macallè gli rivolse un sorriso largo e triste.
«Franco» iniziò piano «da morti si torna interi.»
Fagiolo strinse gli occhi. «Interi come?»
«Interi» ripeté. «Come quando eravamo bimbi. Senza pezzi rotti, senza botte, senza fame. Senza le medicine che ti fanno dormire e ti mangiano la testa. Tutto quello che ti hanno tolto qui te lo ridanno.»
Si batté la coscia con un colpo secco. Il suono fu pieno, vivo.
«Vedi? Non è finta. E nemmeno la mia forza. Ce l’ho tutta. Secondo me si ritorna giovani.»
Poi aggiunse, con quel lampo dolce e confuso che lo aveva sempre accompagnato:
«Lì dove siamo ora nessuno è rotto. Nemmeno io.»
Fagiolo abbassò lo sguardo verso le sue gambe nude illuminate dalla luna. Erano forti, muscolose, come quando portava le bombole o spaccava un panchino di granito con una testata.
«Oreste…» mormorò. «Non è possibile.»
Macallè si voltò verso di lui, serio per un istante.
«Nemmeno io ci credevo. Ma quando mi sono svegliato dall’altra parte l’ho trovata lì. Ci ho pianto sopra come un bimbo. Avevo di nuovo due gambe, mi era tornata come torna la coda alle lucertole.»
Poi sorrise di nuovo, un sorriso di chi non sa se ridere o piangere.
«È il regalo che fanno a tutti, quando finisce la fatica.»
Restò in silenzio. Il sorriso rimase sospeso sul volto.
Fagiolo no. Dentro di lui qualcosa si spezzò, come una corda tirata troppo. Il fiato gli uscì in un colpo, un sussurro.
«Allora… è vero.»
La voce tremò.
«Quel malessere… mi era sembrato una scemata, una girata di testa. Era… quello?»
Macallè annuì piano, come chi teme di far male.
«Sì, Franco. Lì hai passato il confine.»
Fagiolo si strinse nelle spalle come per il freddo, anche se la notte era tiepida.
«E ora? Perché sto qui ma mi sembra di non esseci. Mi sento intero e vuoto allo stesso tempo.»
Macallè gli prese il braccio con delicatezza.
«È normale, cugio. Nessuno arriva dall’altra parte tutto insieme. Si entra a stadi, come quando entri in mare: prima i piedi, poi le gambe, poi il petto. Ci si abitua piano alla nuova vita.»
«Nuova vita?»
La voce gli uscì rotta, un misto di paura e stupore.
«E i miei? Mamma, babbo… il mì fratello… e gli altri? Non li vedo. Dove sono?»
Macallè sorrise, gli occhi più morbidi.
«Li rivedrai. Tutti.»
Poi indicò il mare, come se la risposta fosse lì, sotto l’acqua.
«Ognuno arriva quando è il sù momento. C’è chi ha più strada, chi deve lasciare qualcosa in ordine prima di partire. Qui non si perde nessuno, Franco.»
Fagiolo abbassò la testa, inspirò come un bambino impaurito.
«E Dio? C’è? Lo vedrò?»
Macallè rise.
«Di Dio parlano tutti.»
Scosse la testa, quasi divertito.
«Io non l’ho mai visto. Ma ti dico una cosa: qui, chi l’ha incontrato… ne parla bene. Molto bene.»
Poi, con il tono più semplice del mondo, aggiunse:
«Secondo me dev’essere una brava persona.»
Il mare sotto di loro parve dare un colpo di fiato.
Fagiolo alzò gli occhi verso di lui, smarrito, piccolo come non era mai stato.
«E ora? Che faccio?»
Macallè gli fece cenno di seguirlo. Salirono sugli scogli del Cotone, quelli che conoscevano come le pieghe della propria mano. La notte era limpida e il mare sotto di loro aveva una luce propria, come se respirasse piano per non disturbare.
Arrivarono in cima alla punta della scogliera, quella che guarda verso il porto.
Fagiolo si fermò di colpo.
Lì, seduta sul ciglio della roccia, c’era una figura femminile.
I piedi nudi nell’acqua.
I capelli lunghi, neri come ali di corvo, che le scendevano sulle spalle e si muovevano con il ritmo del mare.
Non si girò.
Non serviva.
Non era necessario che voltasse il volto né che parlasse.
Fagiolo la riconobbe subito.
Macallè lo guardò di sbieco, con un mezzo sorriso dolce e malizioso.
«Te l’avevo detto, cugio. Qui ritrovi tutto. Anche lei viene spesso sulli scogli e guarda verso casa tua.»
Fagiolo fece un passo avanti. Le gambe gli tremavano più di prima, più di quando aveva scoperto di essere morto, ma non era paura.
Dentro la sua testa si aprì un ricordo, vivo come accaduto un’ora fa.
FLASHBACK
Estate 1969. Il veliero era quello con cui Fagiolo era sceso a Marciana Marina e si chiamava Makatea. Sembrava uscito da un romanzo di Salgari.
Un veliero vero, con alberi alti, vele macchiate di sale e cime che cantavano al vento.
Il ricordo lo riportava a un mese prima dello sbarco.
Fagiolo era imbarcato come marinaio su quel veliero che faceva piccole crociere a pagamento per chi cercava un’avventura diversa dai soliti charter. Era una crociera costosa, ma i clienti non mancavano.
Fin dal primo giorno si era fatto notare per la sua somiglianza al Che Guevara, anche se non dava confidenza a nessuno. Faceva il suo lavoro in silenzio. Le clienti fingevano indifferenza e poi lo osservavano di nascosto: quell’uomo con la faccia del rivoluzionario, i capelli lunghi e lo sguardo duro. Lui non se ne curava.
Ogni tanto qualche avventura capitava, ma nessuna lasciava il segno. A tutte prometteva che sarebbe andato a trovarle, pur sapendo che non l’avrebbe fatto.
La sua vita scorreva tranquilla, fino al giorno in cui a Piombino lei imbarcò con un gruppo di amici.
Una ragazza dai capelli neri come carbone e la pelle scura, forse corsa, forse sarda, forse di un porto ancora più lontano. Erano quattro coppie di amici, si capiva che venivano da famiglie benestanti.
Il gioco di sguardi iniziò la sera stessa. Una sua amica, indicando Franco, disse:
«Ma lo hai visto quel marinaio? È il ritratto del Che, che bel ragazzo!»
Lei si voltò verso Fagiolo, proprio nell’istante in cui anche lui guardò lei. I loro sguardi si incrociarono e il cuore prese fuoco a entrambi.
E anche se presto scoprì che non aveva nulla di esotico, perché veniva da Firenze, da quel momento furono attimi di eternità rubati.
Finti malesseri, quando i suoi amici e il fidanzato facevano il bagno o scendevano a terra, per restare a bordo sola con lui.
Baci sottocoperta.
Amore fatto in piedi nella cambusa o nel pozzo delle catene, tra l’odore del salmastro e del ferro arrugginito, forte come i loro abbracci.
Si erano trovati senza cercarsi.
Il loro era un segreto custodito tra onde e assi di legno.
Fu lei a dirgli:
«Quando questo viaggio finisce, cosa facciamo? A me questo mare ha mangiato l’anima.»
Lui l’aveva guardata senza rispondere.
Il giorno dell’addio arrivò.
Sbarcarono tutti insieme. Franco e gli altri aiutarono a portare i bagagli. Una stretta di mano, entrambi con gli occhi bassi e lei si allontanò senza voltarsi.
Franco rimase sulla prora a guardarla andare via, per mano con il suo ragazzo verso l’uscita del porto. Non l’aveva più rivista.
Scomparsa in un porto, lasciando un vuoto che Fagiolo non aveva mai permesso a nessuno di toccare.
Per questo nessuno aveva mai saputo.
Per questo nessuno lo aveva mai visto con una donna.
Per questo non ne aveva mai parlato.
Era il suo tesoro segreto.
Il suo unico amore vero.
L’unica cosa che aveva preferito non condividere, nemmeno con gli amici del bar.
Sulla scogliera Franco si sedette accanto a lei.
«Ciao, Franco.»
«Ciao Margherita.»
Lei si girò verso di lui. Franco morì per la seconda volta in un giorno, questa volta dentro i suoi occhi.
«Sei identico a quando ti ho salutato sul veliero.»
«Non mi hai salutato, Margherita. Sei andata con lui, senza voltarti.»
Margherita abbassò lo sguardo verso il mare che scuriva la notte.
Aveva un’ombra nel sorriso, quella malinconia che conosce solo chi ha visto finire una vita prima del tempo.
«Franco… io quel giorno non sono andata via da te. Non davvero.»
La sua voce era la stessa dell’estate del ’69, morbida e un po’ roca.
Fagiolo la fissò senza respirare.
«Dovevamo rientrare a Firenze. Il mio fidanzato guidava. A un incrocio una macchina ha tagliato la corsia. Lui è morto sul colpo. Io dopo due giorni.»
Il mare sotto di loro fece un lungo respiro.
Franco chiuse gli occhi, una mano sul volto. Tutti gli anni passati a pensarla, a immaginarla sposata, lontana, felice o infelice, si frantumarono in un istante.
«Perché non l’ho saputo?» sussurrò.
Margherita gli sfiorò la guancia con due dita, come se mezzo secolo non fosse mai passato.
«Perché nessuno lo sapeva. Viaggiavo con loro, non con la mia famiglia. Il mio nome non è mai arrivato a Marciana Marina.»
Poi sorrise appena.
«E tu eri arrabbiato. Così arrabbiato che non hai mai chiesto.»
Fagiolo capì subito tutto il peso di quella frase.
Margherita continuò:
«Ma ti ho cercato, dopo. Così venivo qui… sugli scogli…»
Franco sentì il petto aprirsi, come una conchiglia stanca di tenere chiuso il suo segreto.
Margherita appoggiò la testa sulla sua spalla.
«Vedi? Non ti ho lasciato mai.»
Franco la guardò.
«Nemmeno io» disse piano. «Mai una volta. Ti ho sempre avuta dentro di me»
Lei rise, una risata che sapeva di spruzzi d’acqua salata del vento di prua.
Rimasero così per un po’, solo il rumore lento dell’acqua e le stelle sul porto.
Poi Macallè si avvicinò, grattandosi la barba con aria impaziente.
«E ora, cugio… si va?»
Franco guardò lui, poi guardò Margherita.
«Dove?»
Macallè allargò le braccia.
«Ma oltre, no? Che si sta a fa’ ancora qui tutti fermi? Qui è il muretto, gli scogli… è casa tua, sì. Ma la strada non finisce sugli scogli. Comincia lì.»
Franco si voltò verso Margherita.
Lei gli tese la mano.
«Insieme stavolta. Senza più perderci.»
Lui la prese.
Il mare fece un’onda più alta, come un saluto.
Le luci del porto tremolarono come lanterne appese a un albero di maestra.
E passo dopo passo, con Macallè che li precedeva scalzo sulle pietre lucide, Franco e Margherita scesero dagli scogli del Cotone e s’incamminarono verso un tratto di costa dove la notte sembrava più chiara, quasi luminosa.
Franco si fermò guardando Margherita.
«Non mi hai mai detto una cosa»
Margherita lo guardò sorpresa
«Dimmi Franco, che cosa non ti ho mai detto?»
«ma te, per che squadra sei?»
…ciao amico mio…
Walter






